La faccia bella dell'America

ENRICO PUGLIESE

La faccia bella dell'America
ENRICO PUGLIESE


Abbiamo tutti sentito la dichiarazione di guerra di Bush e i riferimenti religiosi dei suoi discorsi degli ultimi giorni. Alla guerra santa dei terroristi islamici si risponde con la guerra santa dell'America protestante. E questo è indubbiamente preoccupante. Il primo risultato di questo incitamento alla guerra è stato l'assassinio di un poveraccio che portava un turbante: un sik, quindi un non mussulmano, forse cittadino americano. E' la prima vittima della guerra dichiarata da Bush.
Non è solo più la vignetta di Vauro a indicare come la guerra è stata dichiarata contro un nemico ignoto. Ormai anche i più tronfi e ufficiali editoriali della grande stampa italiana sottolineano il paradosso della mancata individuazione dei paesi ai quali dichiarare guerra: guerra condotta in accordo con gli altri paesi della Nato, i quali hanno votato l'articolo 5 del trattato. Il che - è bene ricordarlo - mette anche il nostro paese in guerra non si sa contro chi. Per ora si sa solo che i terroristi sono arabi o islamici, il che non è neanche la stessa cosa: basti pensare appunto all'Afghanistan.
D'altro canto, molti leader di comunità islamiche in giro per il mondo hanno condannato la strage terroristica - in modo presumibilmente sincero, almeno la maggior parte. Ma anch'essi hanno usato, tanto per cambiare, spiegazioni e terminologia religiosa. Ci siamo sentito spiegare che "il terrorismo è peccato"; oppure abbiamo ascoltato qualche religioso (più simpatico) ripetere, a condanna della strage, un verso del Corano che corrisponde al settimo comandamento della Bibbia: non uccidere. Insomma la religione è entrata di peso in questa accenda e ci è entrata in maniera estremamente confusa. D'altra parte questa confusione è anche il riflesso della complessità della situazione.
Pochi giorni dopo l'insediamento di Bush mi trovavo in America. Alla televisione si dibatteva la proposta del nuovo presidente di ridurre la spesa sociale togliendo allo stato e demandando alle organizzazioni caritatevoli la gestione di alcuni programmi di assistenza (il charitable welfare). Ricordo un dibattito televisivo con esponenti di diverse fedi e organizzazioni religiose. Solo un giovane rabbino di sinistra era in disaccordo. Gli altri, islamici compresi, mostravano soddisfazione. Ho avuto l'immediata impressione di un nuovo peso e un nuovo ruolo delle organizzazioni religiose in America (come dappertutto nel mondo). E non solo di quelle cristiane.

In America inoltre la presenza araba e/o islamica è molto complessa, ancora più che da noi. La composizione etnica e religiosa di questo paese è cambiata con i flussi migratori dei decenni scorsi: è cambiata rispetto cinquant'anni fa, e allora era già drasticamente cambiata rispetto a 100 anni fa.
A partire dall'inzio degli anni ottanta gli Stati uniti sono stati interessati da una ondata migratoria senza precedenti. In termini relativi (cioè come incidenza sulla popolazione americana già residente) si è trattato un fenomeno più modesto della grande immigrazione del periodo a cavallo del secolo. Ma in termini assoluti si è trattato di un fenomeno di portata superiore. Con un significativo elemento di novità: gli immigrati non sono più europei come a quell'epoca, anzi - con l'eccezione dei paesi dell'ex-Unione Sovietica - il contribuito dell'Europa è modesto. Il grande flusso migratorio proviene ora dai paesi dl Terzo mondo, paesi islamici compresi.

L'immagine prevalente della nuova immigrazione americana ha al suo centro i chicanos, gli immigrati dal Messico. E l'immagine è corretta: i messicani e in generale i latinoamericani sono la parte preponderante. Ma gli altri sono tantissimi e tra loro anche i diversi milioni di arabi e/o islamici. Orchard street era per eccellenza a Manhattan la strada dove alla fine dell'ottocento si insediavano gli ultimi arrivati: irlandesi e, soprattutto, italiani e ebrei dell'est. New Orchard street si chiama una zona del quartiere di Queens, intorno a Roosevelt Avenue, dove si insediano i nuovi immigrati da ogni parte del mondo: latino americani, ucraini, russi, arabi, indiani, pakistani... Proprio come un secolo addietro a Orchard street gli ebrei, i polacchi, gli italiani, e le varie nazionalità provenienti dall'impero asburgico, stavano ammassati nella parte sud di Manhattan - non lontano dalla zone delle due torri - ora i nuovi immigrati dei paesi del sud del mondo si ammassano intorno a Roosevelt Avenue per diversi chilometri quadrati. Questa è la nuova America multietnica, complessa e differenziata per etnia, nazionalità religione e costume. Più di uno porta il turbante e rischia di essere religiosamente ammazzato. Ma - abbiamo visto - può non essere né arabo né islamico.
A scanso di equivoci vorrei sottolineare che questa variegata presenza esprime la parte bella dell'America: un paese che non si è mai vergognato di definirsi paese di immigrazione. Si l'impraticabile ideologia del melting pot (il crogiuolo che tutto mescola e amalgama, lasciando ad ogni buon conto fuori i neri) sia la presa d'atto della immigrazione come salad bowl, il contenitore dell'insalata dove ogni singolo pezzo mantiene la sua identità, esprimono la visione di paese di immigrati che l'America ha sempre avuto di sé. Fin dal primo giorno di scuola i bambini (compresi i figli degli immigrati illegali entrati da qualche settimana) nelle scuola giurano fedeltà alla bandiera degli Stati uniti d'America, e in generale ci credono.
Ovviamente non tutti. Cioè tutti, tranne quelli che hanno giurato fedeltà a una causa ancora più forte: a un causa religiosa (Dio ce ne guardi), come appunto qualche minoranza estremista criminale, appartenente magari ora a una frazione dell'Islam; domani non sappiamo a chi.
Ma come si distinguono questi dagli altri? Non certo per provenienza etnica e religiosa e men che meno per classe sociale. Ciò è una ulteriore complicazione. Nell'immigrazione araba in America c'è la gente più varia: ci sono poveri (in prevalenza) ma anche ricchi. E' uno degli aspetti della globalizzazione. C'è la tradizionale immigrazione per occupazioni della fascia secondaria del mercato del lavoro, ma ci sono anche le skilled migrations, le migrazioni di personale qualificato. E soprattutto dai paesi arabi ricchi, c'è l'immigrazione di studenti, di gente che viene per fare corsi (anche per piloti). C'è gente appartenente a famiglie ricche che risiede per motivi vari e magari fa anche un corso di specializzazione (anche per piloti). E poi ci sono gli uomini d'affari, i banchieri, i petrolieri, gente che ha interessi economici comuni con imprenditori e lobbisti americani. Forse non bisogna dimenticare che il partito repubblicano ha sempre avuto un debole per gli ambienti padronali e reazionari (anche sul piano religioso) dei paesi arabi produttori di petrolio.

E qui c'è un'altra novità, oltre a quella relativa alla composizione nazionale e di classe della immigrazione. Una volta il partito degli ultimi arrivati era il partito democratico. Ebrei dell'est, irlandesi, italiani di prima, seconda e terza generazione erano democratici. Non c'era questione. In Le ceneri di Angela, di McCourt, il padre immigrato irlandese si porta dietro la fotografia di Roosevelt, proprio come il contadino lucano ex-emigrante raccontato da Carlo Levi.
Tutto questo non è più. Il partito democratico non è più il partito della immigrazione. Ma soprattutto i nuovi immigrati non vanno "naturalmente" con i democratici. Chi sa cosa votano i sik? E gli altri indiani? E i pakistani? E gli arabi islamici? E gli islamici non arabi? Nel film che citavo nel mio articolo precedente, The second american civil war, il senatore dello stato a grande componente islamica, si schiera dalla parte di chi finanzia la costruzione della moschea, prescindendo da qualunque considerazione di diritto, di pace o altro. Non è un film razzista: tutt'altro. E' un film sui paradossali effetti interni della globalizzazione.
Ma era solo un film. Con la tragedia dell'11 settembre la realtà a superato la fiction (come si dice ora), ovviamente in peggio. C'entra l'intolleranza, l'estremismo, il bigottismo religioso, l'irresponsabilità nei confronti della guerra. Proprio come in quel film.
Ma c'entra anche la globalizzazione. Potenza mondiale militare unica, l'America ha conquistato tutto. Tutto domina e tutto contiene dentro di se. I terroristi possono comprarsi un bel corso per pilota solo in America. D'altra parte, se è vero che sono collegati a Bin Laden, anche il mestiere di terrorista l'hanno imparato dagli americani e forse in America. E questo è l'ennesimo frutto avvelenato della globalizzazione.

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