Davanti all'orrore,
all'impensabile
I
Da Hiroshima in poi l'occidente ha pensato globalmente
la guerra,
e l'ha agita localmente.
Ora qualcun altro raccoglie quell'invito e lo agisce
nel cuore di Manhattan, colpendo tutto il mondo.
Impossibile non riconoscerne l'orrore
e l'impensabilità. E invece
di rinchiudersi nella corazza della Nato, bisogna aprirsi,
stringere patti con altri popoli, ridare forza all'Onu. E
ritrovare capacità
di dialogo, giustizia, pace
ISIDORO D. MORTELLARO
Pochi, anche negli Usa, si sono accorti della chiave cifrata
nascosta in quella frase. In realtà, Bush citava il titolo di uno
scandaloso volume del 1962 dello scienziato-stratega-futurologo,
Herman Kahn, "Thinking About the Unthinkable": un lavoro
chiave sulle possibilità di condurre e vincere una guerra
nucleare, divenuto termine di riferimento per ogni strategia o
pensiero che abbia osato accostarsi al tema dell'utilizzo
dell'atomica.
Oggi - all'indomani dell'11 settembre 2001 - sappiamo che altri
avevano già varcato la soglia di quell'"impensabile". In modo
diverso da Bush. In modo diverso da come tutto l'apparato che
circonda lui ed ogni presidente americano - il complesso
militar-industriale americano, e perciò globale - è abituato da
Hiroshima in poi a pensare la guerra: come Big Science, conquista
dello spazio, dominio dell'informazione, d'ogni atomo o bit che
si aggiri sul pianeta. All'altro capo del mondo, o in qualche
sotterraneo dei mille grattacieli americani, altri erano già al
lavoro, decifravano quel messaggio, accoglievano quell'invito. Lo
facevano "pensando in modo nuovo" a come disporre del proprio
corpo nei nuovi flussi della globalizzazione, a come ognuno di
noi si sente invaso ed oppresso dal mondo, ma vede anche ogni
propria azione rifrangersi e moltiplicarsi nel globo, nelle sue
reti ed architetture. Un "nuovo pensiero" riflette che oggi
l'immane potenza della globalizzazione può reinterpretare e
centuplicare l'antica scoperta d'Archimede: "datemi una leva e vi
solleverò il mondo". Con la scelta estrema del suicidio, quella
leva umana ha tramutato aerei civili in atomiche urbane. A poco
più di mezzo secolo di distanza, nuovi polverosi funghi si sono
sollevati, e questa volta direttamente nel centro dell'Occidente
e d'America.
Da allora, dal momento in cui quei funghi ci hanno invaso
gli schermi e la vita, il grido "siamo tutti americani" è
risuonato ovunque, rifratto da mille titoli ed editoriali. E'
così. Deve esser così. Perché così siamo, da Auschwitz e
Hiroshima: tutti ebrei, tutti giapponesi. Magari non lo siamo
stati fino in fondo. Qualche volta lo abbiamo dimenticato. A
volte non abbiamo gridato forte: siamo tutti cambogiani,
rwandesi, ceceni, palestinesi. Ma non vale ricordarlo ora. E'
stupido provare a pareggiare i conti di una algebra assurda. C'è
un momento in cui un grido nuovo deve provare a mutare il modo in
cui gridiamo, ad esprimere davvero la nostra inedita condizione
di uomini nel mondo senza confini della globalizzazione. Marshall
McLuhan diceva che "oggi indossiamo l'umanità come una seconda
pelle". E' la nostra conquista e la nostra condanna. E oggi è
venuto il momento di saperle esprimere gridando: "siamo tutti
americani". Ma come?
Nel mondo, ma soprattutto in Europa, ieri questo grido - prima di
farsi oggi silenzio, raccoglimento - è risuonato forte, ai piani
bassi, tra la gente comune, e ai piani alti, su, all'Unione
Europea e alla Nato. Come mai si era sentito. Per la prima volta
nella sua storia la Nato e gli Europei hanno deciso
l'applicazione dell'art. 5 del Trattato del Nord-Atlantico, il
patto fondativo dell'Alleanza Atlantica - un trattato non
richiamato e non rispettato, stravolto all'epoca della "guerra
umanitaria" nei cieli del Kosovo. In quell'articolo si dice: "Le
parti convengono che un attacco armato contro una o più di esse
in Europa e nell'America settentrionale sarà considerato come un
attacco diretto contro tutte le parti, e di conseguenza
convengono ... che ciascuna di esse, nell'esercizio del diritto
di legittima difesa, individuale o collettiva, riconosciuto
dall'art. 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà la
parte o le parti così attaccate intraprendendo immediatamente,
individualmente e di concerto con le altre parti, l'azione che
giudicherà necessaria, ivi compreso l'uso della forza armata, per
ristabilire e mantenere la sicurezza nella regione dell'Atlantico
settentrionale". L'articolo però prosegue con un secondo comma -
da nessuno ricordato in queste ore - in cui si dice: "Ogni
attacco armato di questo genere e tutte le misure prese in
conseguenza di esso saranno immediatamente portate a conoscenza
del Consiglio di Sicurezza (dell'Onu). Queste misure termineranno
allorché il Consiglio di Sicurezza avrà preso le misure
necessarie per ristabilire e mantenere la pace e la sicurezza
internazionali".
La logica è stringente e non può non esser così in un
Trattato aperto da un preambolo e da un art. 1 quanto mai
precisi. Gli stati, le parti firmatarie del patto, richiamandosi
al "desiderio di vivere in pace con tutti i popoli e con tutti i
governi", si impegnavano allora "a comporre con mezzi pacifici
qualsiasi controversia internazionale in cui potrebbero essere
coinvolte, in modo che la pace e la sicurezza internazionali e la
giustizia non vengano messe in pericolo, e ad asternersi nei loro
rapporti internazionali dal ricorrere alla minaccia o all'uso
della forza assolutamente incompatibile con gli scopi delle
Nazioni Unite".
Allora ad insistere per formulazioni così caute, sulla cornice
dell'Onu e del Consiglio di sicurezza, furono soprattutto gli
Usa, stretti tra gli europei firmatari del Patto di Bruxelles,
che premevano per un ombrello americano automatico sull'Europa, e
un Congresso non ancora deciso a rompere con la tradizione
isolazionista e incerto sulla soglia del nuovo atlantismo. Del
resto allora l'Onu appariva agli Usa un luogo sicuro nel quale
esercitare, assieme agli altri grandi e dall'alto dell'atomica,
il diritto di veto, nel quale, magari in condominio con l'Urss si
poteva provare a tenere sotto controllo il mondo tumultuoso che,
libero da Hitler, provava a sciogliesi dagli ultimi legacci del
colonialismo.
Ne è passata di acqua sotto i ponti. E tra gli Usa e l'Onu si è
scavato col tempo un fossato. Forse è questa la ragione per cui
anche in Europa questi articoli e commi del Patto atlantico sono
stati dimenticati, così come era stato dimenticato, umiliato e
riscritto alla chetichella tutto il trattato all'epoca del
Kosovo.
Ma perché perseverare oggi? Perché gridare oggi come Occidente,
come Nato, "siamo tutti americani"? Perché rinserrarsi dietro la
trincea atlantica, perché provare, con Huntington, ad elevare
nuovi impossibili muri tra civiltà? Il lascito migliore
dell'Occidente è in quelle Carte dell'Onu e dei Diritti
fondamentali, giustamente impugnate e reinterpretate, ad un certo
punto, anche contro l'Occidente dal mondo che si liberava dal
colonialismo, che chiedeva un universalismo meno eurocentrico,
meno atlantico. Perché non gridare "siamo tutti americani" come
Onu? Perché non gridarlo in maniera ancora più forte, anche per
correggere adesso e riformare questa organizzazione e il suo
Consiglio di sicurezza, nei tratti ormai veramente inadeguati
alle nuove condizioni del mondo e della guerra moderna?
Allora l'Onu, la Nato e ogni Costituzione conquistata
dopo la lotta antifascista provavano a liberarsi per sempre dalla
guerra, riconoscendone l'orrore e l'impossibilità: dopo Hiroshima
inevitabilmente ogni conflitto globale si sarebbe tramutato in
suicidio dell'umanità. Da allora abbiamo dovuto imparare a fare i
conti con un'altra tremenda innovazione. Ogni guerra nel mondo
senza confini della globalizzazione è inevitabilmente "guerra
civile": per i suoi bersagli, per i suoi protagonisti, per il
modo in cui squassa il pianeta, per le ferite che vi apre.
L'11 settembre 2001 il terrorismo autistico del terzo millennio,
incapace di proclami e rivendicazioni, ha gridato al mondo
quest'unica verità: "guerra", "guerra civile". Bisogna sfuggire
innanzitutto alla trappola che ci tende: a rinchiuderci nella
corazza della Nato e dell'Occidente, dell'atlantismo blindato,
nell'autismo planetario ma suicida del grido "guerra". Diverremmo
definitivamente atomi impazziti, orfani di tutti giuramenti e
patti che mezzo secolo fa abbiamo stretto tra noi e coi popoli e
le civiltà del mondo. Su questa terra senza più isole o rifugi, è
venuto veramente il momento di "pensare l'impensabile": guardare
altrove dalla guerra, ritornare al ferro vecchio dell'Onu, alle
nostre Costituzioni, alla scelta di far fronte all'orrore con gli
strumenti della pace, della giustizia e del dialogo.
Diversamente, forse, non c'è salvezza.