Davanti all'orrore, all'impensabile

ISIDORO D. MORTELLARO

Davanti all'orrore, all'impensabile
Da Hiroshima in poi l'occidente ha pensato globalmente la guerra, e l'ha agita localmente. Ora qualcun altro raccoglie quell'invito e lo agisce nel cuore di Manhattan, colpendo tutto il mondo. Impossibile non riconoscerne l'orrore e l'impensabilità. E invece di rinchiudersi nella corazza della Nato, bisogna aprirsi, stringere patti con altri popoli, ridare forza all'Onu. E ritrovare capacità di dialogo, giustizia, pace
ISIDORO D. MORTELLARO


Il 1 maggio di quest'anno, in un discorso insistentemente annunciato, George W. Bush tornava a definire gli orizzonti della propria presidenza e degli Usa con queste parole: "Re-think the Untinkable": "ri-pensare l'impensabile". Rispetto al mondo post-bipolare, unificato e squassato dalla globalizzazione, bisogna adottare "un nuovo pensiero", oltre gli schemi fissi e le costrizioni della guerra fredda, parare nuove minacce, nemici sfuggenti. Di qui l'ossessiva insistenza sullo scudo spaziale, sulla necessità di liberarsi da trattati e corsetti che lo proibiscono.
Pochi, anche negli Usa, si sono accorti della chiave cifrata nascosta in quella frase. In realtà, Bush citava il titolo di uno scandaloso volume del 1962 dello scienziato-stratega-futurologo, Herman Kahn, "Thinking About the Unthinkable": un lavoro chiave sulle possibilità di condurre e vincere una guerra nucleare, divenuto termine di riferimento per ogni strategia o pensiero che abbia osato accostarsi al tema dell'utilizzo dell'atomica.
Oggi - all'indomani dell'11 settembre 2001 - sappiamo che altri avevano già varcato la soglia di quell'"impensabile". In modo diverso da Bush. In modo diverso da come tutto l'apparato che circonda lui ed ogni presidente americano - il complesso militar-industriale americano, e perciò globale - è abituato da Hiroshima in poi a pensare la guerra: come Big Science, conquista dello spazio, dominio dell'informazione, d'ogni atomo o bit che si aggiri sul pianeta. All'altro capo del mondo, o in qualche sotterraneo dei mille grattacieli americani, altri erano già al lavoro, decifravano quel messaggio, accoglievano quell'invito. Lo facevano "pensando in modo nuovo" a come disporre del proprio corpo nei nuovi flussi della globalizzazione, a come ognuno di noi si sente invaso ed oppresso dal mondo, ma vede anche ogni propria azione rifrangersi e moltiplicarsi nel globo, nelle sue reti ed architetture. Un "nuovo pensiero" riflette che oggi l'immane potenza della globalizzazione può reinterpretare e centuplicare l'antica scoperta d'Archimede: "datemi una leva e vi solleverò il mondo". Con la scelta estrema del suicidio, quella leva umana ha tramutato aerei civili in atomiche urbane. A poco più di mezzo secolo di distanza, nuovi polverosi funghi si sono sollevati, e questa volta direttamente nel centro dell'Occidente e d'America.

Da allora, dal momento in cui quei funghi ci hanno invaso gli schermi e la vita, il grido "siamo tutti americani" è risuonato ovunque, rifratto da mille titoli ed editoriali. E' così. Deve esser così. Perché così siamo, da Auschwitz e Hiroshima: tutti ebrei, tutti giapponesi. Magari non lo siamo stati fino in fondo. Qualche volta lo abbiamo dimenticato. A volte non abbiamo gridato forte: siamo tutti cambogiani, rwandesi, ceceni, palestinesi. Ma non vale ricordarlo ora. E' stupido provare a pareggiare i conti di una algebra assurda. C'è un momento in cui un grido nuovo deve provare a mutare il modo in cui gridiamo, ad esprimere davvero la nostra inedita condizione di uomini nel mondo senza confini della globalizzazione. Marshall McLuhan diceva che "oggi indossiamo l'umanità come una seconda pelle". E' la nostra conquista e la nostra condanna. E oggi è venuto il momento di saperle esprimere gridando: "siamo tutti americani". Ma come?
Nel mondo, ma soprattutto in Europa, ieri questo grido - prima di farsi oggi silenzio, raccoglimento - è risuonato forte, ai piani bassi, tra la gente comune, e ai piani alti, su, all'Unione Europea e alla Nato. Come mai si era sentito. Per la prima volta nella sua storia la Nato e gli Europei hanno deciso l'applicazione dell'art. 5 del Trattato del Nord-Atlantico, il patto fondativo dell'Alleanza Atlantica - un trattato non richiamato e non rispettato, stravolto all'epoca della "guerra umanitaria" nei cieli del Kosovo. In quell'articolo si dice: "Le parti convengono che un attacco armato contro una o più di esse in Europa e nell'America settentrionale sarà considerato come un attacco diretto contro tutte le parti, e di conseguenza convengono ... che ciascuna di esse, nell'esercizio del diritto di legittima difesa, individuale o collettiva, riconosciuto dall'art. 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà la parte o le parti così attaccate intraprendendo immediatamente, individualmente e di concerto con le altre parti, l'azione che giudicherà necessaria, ivi compreso l'uso della forza armata, per ristabilire e mantenere la sicurezza nella regione dell'Atlantico settentrionale". L'articolo però prosegue con un secondo comma - da nessuno ricordato in queste ore - in cui si dice: "Ogni attacco armato di questo genere e tutte le misure prese in conseguenza di esso saranno immediatamente portate a conoscenza del Consiglio di Sicurezza (dell'Onu). Queste misure termineranno allorché il Consiglio di Sicurezza avrà preso le misure necessarie per ristabilire e mantenere la pace e la sicurezza internazionali".

La logica è stringente e non può non esser così in un Trattato aperto da un preambolo e da un art. 1 quanto mai precisi. Gli stati, le parti firmatarie del patto, richiamandosi al "desiderio di vivere in pace con tutti i popoli e con tutti i governi", si impegnavano allora "a comporre con mezzi pacifici qualsiasi controversia internazionale in cui potrebbero essere coinvolte, in modo che la pace e la sicurezza internazionali e la giustizia non vengano messe in pericolo, e ad asternersi nei loro rapporti internazionali dal ricorrere alla minaccia o all'uso della forza assolutamente incompatibile con gli scopi delle Nazioni Unite".
Allora ad insistere per formulazioni così caute, sulla cornice dell'Onu e del Consiglio di sicurezza, furono soprattutto gli Usa, stretti tra gli europei firmatari del Patto di Bruxelles, che premevano per un ombrello americano automatico sull'Europa, e un Congresso non ancora deciso a rompere con la tradizione isolazionista e incerto sulla soglia del nuovo atlantismo. Del resto allora l'Onu appariva agli Usa un luogo sicuro nel quale esercitare, assieme agli altri grandi e dall'alto dell'atomica, il diritto di veto, nel quale, magari in condominio con l'Urss si poteva provare a tenere sotto controllo il mondo tumultuoso che, libero da Hitler, provava a sciogliesi dagli ultimi legacci del colonialismo.
Ne è passata di acqua sotto i ponti. E tra gli Usa e l'Onu si è scavato col tempo un fossato. Forse è questa la ragione per cui anche in Europa questi articoli e commi del Patto atlantico sono stati dimenticati, così come era stato dimenticato, umiliato e riscritto alla chetichella tutto il trattato all'epoca del Kosovo.
Ma perché perseverare oggi? Perché gridare oggi come Occidente, come Nato, "siamo tutti americani"? Perché rinserrarsi dietro la trincea atlantica, perché provare, con Huntington, ad elevare nuovi impossibili muri tra civiltà? Il lascito migliore dell'Occidente è in quelle Carte dell'Onu e dei Diritti fondamentali, giustamente impugnate e reinterpretate, ad un certo punto, anche contro l'Occidente dal mondo che si liberava dal colonialismo, che chiedeva un universalismo meno eurocentrico, meno atlantico. Perché non gridare "siamo tutti americani" come Onu? Perché non gridarlo in maniera ancora più forte, anche per correggere adesso e riformare questa organizzazione e il suo Consiglio di sicurezza, nei tratti ormai veramente inadeguati alle nuove condizioni del mondo e della guerra moderna?

Allora l'Onu, la Nato e ogni Costituzione conquistata dopo la lotta antifascista provavano a liberarsi per sempre dalla guerra, riconoscendone l'orrore e l'impossibilità: dopo Hiroshima inevitabilmente ogni conflitto globale si sarebbe tramutato in suicidio dell'umanità. Da allora abbiamo dovuto imparare a fare i conti con un'altra tremenda innovazione. Ogni guerra nel mondo senza confini della globalizzazione è inevitabilmente "guerra civile": per i suoi bersagli, per i suoi protagonisti, per il modo in cui squassa il pianeta, per le ferite che vi apre.
L'11 settembre 2001 il terrorismo autistico del terzo millennio, incapace di proclami e rivendicazioni, ha gridato al mondo quest'unica verità: "guerra", "guerra civile". Bisogna sfuggire innanzitutto alla trappola che ci tende: a rinchiuderci nella corazza della Nato e dell'Occidente, dell'atlantismo blindato, nell'autismo planetario ma suicida del grido "guerra". Diverremmo definitivamente atomi impazziti, orfani di tutti giuramenti e patti che mezzo secolo fa abbiamo stretto tra noi e coi popoli e le civiltà del mondo. Su questa terra senza più isole o rifugi, è venuto veramente il momento di "pensare l'impensabile": guardare altrove dalla guerra, ritornare al ferro vecchio dell'Onu, alle nostre Costituzioni, alla scelta di far fronte all'orrore con gli strumenti della pace, della giustizia e del dialogo. Diversamente, forse, non c'è salvezza.

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