Processo a Kabul S
PIERGIORGIO PESCALI
Nonostante i media occidentali sembrino più preoccupati per la
sorte degli otto occidentali, la minaccia maggiore incombe sui
sedici afgani che, privi di ogni protezione diplomatica, si
vedranno, con ogni probabilità, imputare davvero la pena
capitale. Analizzando la successione degli eventi, appare
evidente che l'accusa rivolta contro Shelter Now International
(Sni) sia solo l'ultimo di una serie di bracci di ferro tra il
regime di Kabul e la diplomazia straniera, in particolare le
Nazioni Unite. E' sicuro che, quando i Taleban hanno concesso a
Sni di avviare propri programmi in Afghanistan, erano
perfettamente a conoscenza delle attività a sfondo religioso
dell'Ong, che opera da sedici anni nella regione centro asiatica,
in modo particolare in Pakistan, e nella quale non ha mai fatto
mistero di abbinare la promozione religiosa cristiana con quella
sociale ed umana. Del resto Shelter Now non è la sola
organizzazione cristiana che lavora a stretto contatto con i
Taleban: a Herat esiste addirittura un Centro Ecumenico, mentre a
Kabul lavorano alcune religiose cristiane.
Piuttosto la vicenda attuale si innesta in un contenzioso
internazionale ben più ampio e profondo che vede le proprie
origini nel 1997 e di cui l'Ong tedesca è l'ultima, ma non la
sola, vittima. Fu in quell'anno che l'allora Sottosegretario al
Dipartimento di Stato USA, Karl Inderfurth, nella speranza di
recuperare il regime "impazzito" di Kabul dopo averlo sostenuto
militarmente contro il governo di Rabbani e Massud - a loro volta
precedentemente sostenuti militarmente dagli Usa -, promise tre
miliardi di dollari nel caso le coltivazioni d'oppio fossero
state rimpiazzate da prodotti cerealicoli. Un recente rapporto UN
Drug Control Programme confermerebbe l'interruzione quasi totale
di produzione d'oppiacei da parte Taleban, ma gli aiuti promessi
per aiutare i contadini a riconvertire i loro campi, non sono mai
giunti. Anzi, l'Onu ha recentemente appesantito le sanzioni. "I
Taleban hanno mantenuto i loro impegni, ma non hanno mai visto un
solo dollaro promesso, ricevendo in cambio un inasprimento delle
sanzioni Onu", ci ha dichiarato un alto funzionario europeo
dell'Onu a Kabul. E' in questo contesto che si inserisce la
vicenda dei Buddha di Bamiyan, distrutti solo dopo che una
delegazione dell'Unesco era giunta a Kabul offrendo al governo
milioni di dollari per evitare la distruzione delle statue. "I
Taleban saranno criminali, ma quando qualcuno prima nega dei
soldi promessi, che sarebbero serviti a scopi umanitari, poi
offre quegli stessi soldi per salvare delle pietre, anche il
governo più razionale della terra può perdere la pazienza",
spiegava desolato un diplomatico occidentale in visita a Kabul.
Come si vede, in Afghanistan risposte apparentemente ovvie
nascondono problemi ben più complicati.
Le pressioni dell'Occidente sul regime di Kabul, a cui si
aggiungono i massicci aiuti militari e politici ai
mujahedeen di Massud, potrebbero far pensare che
l'incriminazione dei volontari di Sni sia una mossa tattica per
sbloccare la situazione di embargo a cui l'Afghanistan è oggetto
da diversi anni. L'intransigenza mostrata dai Taleban nel
rifiutare ogni tentativo di mediazione da parte del Pakistan, i
ripetuti rifiuti alle diverse delegazioni straniere di incontrare
i prigionieri, farebbero parte di un copione che, comunque vada a
finire, garantirebbe un'àncora di salvezza per Kabul.
L'applicazione letterale della sharia, e quindi anni di
prigione per gli stranieri e l'impiccagione per gli apostati
afghani, non implicherebbe per i Taleban un peggioramento della
loro attuale situazione, che li vede isolati politicamente e
economicamente dal mondo.
Viceversa, l'estradizione degli 8 cittadini occidentali e la
grazia ai 16 afghani (la soluzione forse più probabile), verrebbe
barattata a livello internazionale con un allentamento
dell'embargo imposto dalle Nazioni unite. Le quali, però,
dovranno, una volta ogni tanto, far fede ai loro impegni.