Processo a Kabul

PIERGIORGIO PESCALI

Processo a Kabul
Otto occidentali di una Ong tedesca e 16 afghani rischiano la pena di morte per "proselitismo"
PIERGIORGIO PESCALI

Si è aperto ieri a Kabul il processo contro gli otto rappresentanti (quattro tedeschi due australiani e due statunitensi) dell'Ong tedesca Shelter Now International (Sdi) accusati di proselitismo. Il capo della corte suprema Noor Mohammad Saqib ha osservato che non è possibile prevedere la durata delle udienze. Gli otto occidentali e 16 collaboratori afghani della Sdi furono arrestati più di un mese fa. In base alla legge del regime integralista dei Talebani, rischiano la pena capitale. La sentenza potrà essere modificata dal capo del regime, il mullah Mohammad Omar. Saqib ha assicurato che i diritti degli imputati saranno garantiti: "Sarà un processo equo - ha detto - in cui agli imputati sarà data la possibilità di parlare e di difendersi senza timore" e potranno farsi difendere da avvocati di loro fiducia. Per il capo della corte suprema è prematuro anticipare un verdetto, anche se a carico degli otto sono state raccolte prove "inconfutabili", come bibbie, cassette video e audio registrate, filmati. Gli otto sono stati visitati in cella dai diplomatici dei loro paesi arrivati da Islamabad, cui hanno detto di essere stati trattati bene. La loro speranza è che i Talebani li espellino dopo una condanna formale. A Kabul c'è anche il padre di uno dei due detenuti statunitensi e la madre di un tedesco.
Nonostante i media occidentali sembrino più preoccupati per la sorte degli otto occidentali, la minaccia maggiore incombe sui sedici afgani che, privi di ogni protezione diplomatica, si vedranno, con ogni probabilità, imputare davvero la pena capitale. Analizzando la successione degli eventi, appare evidente che l'accusa rivolta contro Shelter Now International (Sni) sia solo l'ultimo di una serie di bracci di ferro tra il regime di Kabul e la diplomazia straniera, in particolare le Nazioni Unite. E' sicuro che, quando i Taleban hanno concesso a Sni di avviare propri programmi in Afghanistan, erano perfettamente a conoscenza delle attività a sfondo religioso dell'Ong, che opera da sedici anni nella regione centro asiatica, in modo particolare in Pakistan, e nella quale non ha mai fatto mistero di abbinare la promozione religiosa cristiana con quella sociale ed umana. Del resto Shelter Now non è la sola organizzazione cristiana che lavora a stretto contatto con i Taleban: a Herat esiste addirittura un Centro Ecumenico, mentre a Kabul lavorano alcune religiose cristiane.
Piuttosto la vicenda attuale si innesta in un contenzioso internazionale ben più ampio e profondo che vede le proprie origini nel 1997 e di cui l'Ong tedesca è l'ultima, ma non la sola, vittima. Fu in quell'anno che l'allora Sottosegretario al Dipartimento di Stato USA, Karl Inderfurth, nella speranza di recuperare il regime "impazzito" di Kabul dopo averlo sostenuto militarmente contro il governo di Rabbani e Massud - a loro volta precedentemente sostenuti militarmente dagli Usa -, promise tre miliardi di dollari nel caso le coltivazioni d'oppio fossero state rimpiazzate da prodotti cerealicoli. Un recente rapporto UN Drug Control Programme confermerebbe l'interruzione quasi totale di produzione d'oppiacei da parte Taleban, ma gli aiuti promessi per aiutare i contadini a riconvertire i loro campi, non sono mai giunti. Anzi, l'Onu ha recentemente appesantito le sanzioni. "I Taleban hanno mantenuto i loro impegni, ma non hanno mai visto un solo dollaro promesso, ricevendo in cambio un inasprimento delle sanzioni Onu", ci ha dichiarato un alto funzionario europeo dell'Onu a Kabul. E' in questo contesto che si inserisce la vicenda dei Buddha di Bamiyan, distrutti solo dopo che una delegazione dell'Unesco era giunta a Kabul offrendo al governo milioni di dollari per evitare la distruzione delle statue. "I Taleban saranno criminali, ma quando qualcuno prima nega dei soldi promessi, che sarebbero serviti a scopi umanitari, poi offre quegli stessi soldi per salvare delle pietre, anche il governo più razionale della terra può perdere la pazienza", spiegava desolato un diplomatico occidentale in visita a Kabul. Come si vede, in Afghanistan risposte apparentemente ovvie nascondono problemi ben più complicati.
Le pressioni dell'Occidente sul regime di Kabul, a cui si aggiungono i massicci aiuti militari e politici ai mujahedeen di Massud, potrebbero far pensare che l'incriminazione dei volontari di Sni sia una mossa tattica per sbloccare la situazione di embargo a cui l'Afghanistan è oggetto da diversi anni. L'intransigenza mostrata dai Taleban nel rifiutare ogni tentativo di mediazione da parte del Pakistan, i ripetuti rifiuti alle diverse delegazioni straniere di incontrare i prigionieri, farebbero parte di un copione che, comunque vada a finire, garantirebbe un'àncora di salvezza per Kabul.
L'applicazione letterale della sharia, e quindi anni di prigione per gli stranieri e l'impiccagione per gli apostati afghani, non implicherebbe per i Taleban un peggioramento della loro attuale situazione, che li vede isolati politicamente e economicamente dal mondo.
Viceversa, l'estradizione degli 8 cittadini occidentali e la grazia ai 16 afghani (la soluzione forse più probabile), verrebbe barattata a livello internazionale con un allentamento dell'embargo imposto dalle Nazioni unite. Le quali, però, dovranno, una volta ogni tanto, far fede ai loro impegni.

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