Nelle prigioni del comandante Massud

PIERGIORGIO PESCALI - DU HOW (AFGHANISTAN)

Nelle prigioni del comandante Massud
Visita nel carcere di Du How, nel Panshir afghano, fra i detenuti taleban. Ma anche cinesi, pakistani, iracheni...
PIERGIORGIO PESCALI - DU HOW (AFGHANISTAN)


Una delle tattiche favorite dal governo Rabbani per garantirsi l'appoggio dell'Occidente, Russia e Cina nella guerra contro i Taleban, è quello di alimentare lo spauracchio dell'estremismo islamico o del secessionismo ceceno o uiguro.
Secondo il comandante Massud, "il leone del Panshir" eroe della resistenza anti-sovietica e nemico giurato degli "studenti di teologia" al potere a Kabul, nei campi militari Taleban e di Osama bin Laden, la primula rossa del terrorismo internazionale cognato del mullah Omar che finora ha respinto le pressioni americane perché sia consegnato alla giustizia Usa, si addestrerebbero guerriglieri e terroristi di vari paesi.
Le prove? "Si trovano nelle nostre prigioni", afferma Massud.
La principale galera del Panshir è quella di Du How. Con un permesso speciale rilasciato dall'ufficio locale del ministero degli esteri, la visito senza preavviso.
Ad accogliermi c'è Farouq, l'assistente alla direzione, che mi accompagnerà per l'intera mia permanenza nell'istituto di pena. La sua presenza può generare leciti sospetti sulla sincerità delle dichiarazioni raccolte tra i prigionieri, ma il responsabile europeo della Croce rossa internazionale, che visita periodicamente i reclusi assieme all'organizzazione non governativa italiana Emergency e che ho contattato dopo il sopralluogo nel carcere del generale Massud, si dice abbastanza sicuro che a Du How vengano rispettati i diritti basilari degli internati: "Du How è considerata una prigione modello, in cui le organizzazioni internazionali e dei diritti umani possono richiedere in ogni momento di entrare e dove i prigionieri hanno tutti un curriculum che li scheda dal momento in cui entrano a quello in cui vengono liberati", mi assicura.
Mentire sui detenuti o sul loro stato di salute è ritenuto impossibile dalle ong interpellate. Appena un carcerato si ammala od è catturato dopo essere stato ferito, viene immediatamente trasportato all'ospedale di Emergency, dove è sempre pronto un reparto riservato ai soli Taleban, in modo da impedire ogni possibile contatto con militari delle diverse fazioni.
Nelle nove celle del carcere, grandi all'incirca dieci metri per quattro, sono rinchiusi duecentonovantratre taleban e diciannove stranieri: cinesi, birmani, yemeniti, iracheni e, naturalmente, pakistani. "I ceceni sono stati trasferiti nelle prigioni del Badakshan e del Takhar", afferma Farouq. In seguito l'informazione verrà confermata da rappresentanti delle Nazioni unite.
Ogni mese, le delegazioni dei Taleban e dell'Unifsa, l'Alleanza fra i nemici degli "studenti di teologia" che controlla meno del dieci per cento dell'Afghanistan, consegnano alla Croce rossa internazionale la lista dei prigionieri che intendono scambiarsi, iniziando le trattative per il rilascio.
Spesso, però, alcuni combattenti vengono "dimenticati". Come il giovane Abdulhaq, un Taleban che oggi ha ventitré anni, ma che al momento della cattura ne aveva diciannove. La sua famiglia, della regione di Kandahar, vive di agricoltura e la mancanza di conoscenze altolocate tra l'amministrazione del proprio distretto, è, secondo Abdulhaq, la ragione principale della sua lunga permanenza nella prigione.
Accanto a lui noto un giovane dallo sguardo vivace: è Mohammad, uno degli ultimi arrivati, ma già famoso per la sua inflessibilità religiosa. Gli chiedo cosa lo ha spinto a combattere per i Taleban: "La jihad. L'Islam è la mia fede ed io vivrò solo finché Allah lo vorrà. Solo per lui sono pronto a morire". Insomma, se la religione è l'oppio dei popoli, Mohammad è l'incarnazione di questa teoria marxista e nonostante il giovanotto venticinquenne abbia lasciato nel suo villaggio moglie e tre figli, la sua fede religiosa gli onnubila la mente.
I diciannove stranieri sono reclusi in una cella separata. Tra quelli che riesco ad intervistare ci sono due cinesi uiguri, originari dello Xinkiang: Abdul Jalil e Nurma Hammat. Dicono di essere arrivati in Pakistan per studiare nelle madrase, le scuole religiose, e solo in seguito avrebbero aderito alla jihad dei Taleban. Il loro addestramento sarebbe stato seguito nei campi di Osama bin Laden.
Chiedere una mediazione dell'ambasciata cinese per la loro liberazione? "Non vogliamo aver alcun contatto con loro", rispondono. Il loro sogno sarebbe quello di lottare per "la liberazione" dello Xinkiang cinese ed combattere la jihad.
Simile risposta la ottengo da Shomamman Shahid, Mohammad Saleh e Abdullah, tre birmani musulmani che vorrebbero un'Arakan indipendente e islamico.
L'ultima confessione me la fornisce Salahuddin Khaled, uno dei tanti pakistani imprigionati ("Ecco la prova dell'intervento militare del Pakistan in Afghanistan", approfitta per dirmi euforico Farouq).
Salahuddin è oramai da cinque anni rinchiuso nel carcere di Du How e nessuno ha fino ad ora mosso un dito per perorare la sua causa. Neppure il governo di Islamabad che però, secondo i cittadini pakistani in cella, sarebbe stato completamente ignaro della loro decisione personale di aiutare i Taleban. Salahuddin spera che i Taleban si ricordino, prima o poi, anche di lui e ne richiedano la scarcerazione. Lui lo spera.

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