L
Una vicenda di ordinaria infamia.
"L'Abusivo" di Antonio Franchini edito da Marsilio
racconta in forma di autobiografia indiretta
la storia di un aspirante giornalista ucciso
da un giovane killer perché così vuole la camorra.
Un omicidio senza odio e senza ragioni,
dove la sintassi tesse una tela di ragno
che tutto avvolge e nulla spiega,
mentre la collettività si lascia naufragare
in una quotidiana umiliazione
RAFFAELE LA CAPRIA
In ognuno di questi libri l'autore ritorna a Napoli, la città
della giovinezze e dell'appartenenza, la città dove la sua
identità si è formata; vi ritorna per fare una ricerca, per
chiarire un fatto, per scoprire qualcosa che è accaduto
nell'ambiente e tra le persone che ha conosciuto in gioventù.
Luoghi e persone sono tutti nominati con il loro vero nome, e
dunque in apparenza - ma solo in apparenza - l'indagine procede
nei modi del réportage giornalistico: incontri, domande,
interviste, inchieste, intrecciate con ricordi personali,
impressioni di ieri e di oggi messe a confronto, e così via.
Ognuno di questi scrittori mentre indaga sui fatti e sui
personaggi che lo interessano, si accorge o fa capire che in
realtà la sua indagine non approderà a nulla, a nulla di preciso,
ma riguarda la città in cui è vissuto, la città della sua
formazione, e questa città è rivista con un occhio diverso,
distante, malinconico e insieme intollerante, intollerante al
punto di mettere in crisi tutto il proprio passato speso lì dove
- ora sa - era impossibile vivere. E' questo il
risultato dell'indagine alla fin fine: come ho potuto vivere qui?
Come ho potuto tollerarlo? E' dunque in questione, ed è lacerata,
la propria identità, fatta di una ineliminabile appartenenza e di
un ineliminabile disgusto. Da ora in poi ognuno di questi
scrittori porterà dentro di sé questa ferita, sarà un ferito a
morte, uno straniero, uno che se n'è andato via.
***
Mi è capitato spesso di dire che a Napoli, tranne qualche
rarissima eccezione non c'era mai stato, neppure nell'Ottocento,
un vero romanzo borghese, un romanzo dove i problemi non solo
esistenziali, ma di carattere civile e morale, propri di un
borghese evoluto fossero rappresentati, e partendo da una realtà
locale la facessero diventare universale. Così come oggi fanno
tanti scrittori borghesi, da Singer a Grossman, da Philip Roth a
Henry Roth, da Canetti a Naipaul. Partendo da un minuscolo paese
della provincia americana, o mitteleuropea, o sperduto in un
continente lontano, essi raggiungono verità e problemi che
riguardano non solo i propri personaggi ma qualsiasi uomo in
qualsiasi parte del mondo. Ecco, questo tipo di scrittore, a
parer mio, a Napoli non esisteva; al suo posto c'era uno
scrittore talmente legato alla sua città e alla sua circoscritta
identità da non riuscire a fare altro che descriverne usi e
costumi, caratteri ed ambienti, senza mai rompere il cerchio di
una protettiva autoreferenzialità per attingere all'universalità
necessaria ad ogni scrittore che voglia far sentire la sua voce
appaesata al mondo.
Ma adesso, mettendo in fila i tre romanzi che ho citato, quello
della Ortese, di Rea e di Franchini - tre scrittori che uno più
diverso dall'altro non potrebbero essere, a me pare che questa
tradizione più seria e responsabile abbia preso piede anche a
Napoli.
Questi tre scrittori offrono della città e della sua borghesia
un'immagine più complessa e meno appariscente, ne rivelano
terribili e nascoste disarmonie, la raccontano insomma in un modo
più vero e interessante. Né le solite descrizioni
paupero-populiste dei cultori delle periferie umane e urbane, né
le orripilanti mistificazioni esibizioniste di un Malaparte, né
le esagerazioni sovreccitate dei tanti visitatori stranieri, tipo
Sartre, che hanno visto in questa città soltanto lo specchio
delle proprie aberrazioni o del proprio inguaribile estetismo.
Niente di tutto questo nei tre scrittori napoletani, ma quella
verità che appare solo quando lo sguardo è disincantato e sgombro
da ogni illusione.
***
Questo era solo un preambolo, necessario per parlare del libro di
Antonio Franchini, L'Abusivo. Chi è l'abusivo è presto
detto: è un giovane che vuol fare il giornalista e che intanto
lavora in un giornale senza contratto e senza nessuna garanzia,
proprio nessuna, né economica né di sicurezza personale. E nel
romanzo di Franchini l'abusivo è Giancarlo Siani, corrispondente
per Il Mattino di Napoli dal fronte della camorra di
Torre Annunziata, ucciso per aver scritto cose che ai camorristi
erano parse pericolose. Oppure ucciso per altri motivi, sempre
però generati dall'ambiente, (dal "contesto" direbbe Sciascia) di
cui è praticamente impossibile venire a capo perché praticamente
i colpevoli potrebbero essere tutti. E questo non venire a capo
di niente che però fa capo solo alla morte di un giovane abusivo
di belle speranze, Giancarlo Siani, è il vero tema del libro di
Franchini. Che si sente anche lui coinvolto personalmente per
aver anche lui iniziato come il suo amico Siani, da giornalista,
e per aver scelto poi la via più sicura della letteratura.
L'assenza del rischio che la letteratura comporta e che Franchini
sente ormai come una colpa e un rimorso, è un altro tema non
secondario del libro.
***
Dunque L'Abusivo di Franchini racconta "una vicenda di
ordinaria infamia" dove un ragazzo che vuol essere assunto da un
giornale per avere il sospirato posto, viene ucciso da un killer
(un altro ragazzo tra i diciotto e i venticinque anni) senza odio
e senza una ragione, ma solo perché così è stato comandato da un
camorrista. Questa è la vera "ordinaria infamia" di una camorra
che ormai non uccide più direttamente ma dà l'incarico di farlo a
un killer che obbedisce come un robot e dice della vittima "a me
nun m'ha fatt niente 'e male. Anzi era nu buon'omm', ma lo dovevo
uccidere, così m'era stato chiesto".
Qui non si parla, in questo libro, della camorra per darne una
versione in noir o in giallo alla maniera americana del
pur bravo Veraldi, o alla maniera pulp e trucibalda del
pur abile Ferrandino; e neppure se ne parla come di
un'associazione criminale simile a quelle che infestano tutte le
grandi capitali del mondo e che il cinema ha continuamente
spettacolarizzato. No, qui si parla di qualcosa di più terribile
perché si parla di una peste morale, di un destino indegno
riservato ai singoli e alla collettività, i cui fili sono in mano
al potere camorrista; e non se ne parla per interessare il
lettore a come si svolge il fatto, ma per comunicargli lo stesso
disgusto che prova l'autore a scriverne. E' un disgusto che, come
ho detto, riguarda anche la sua idea di letteratura, perché ci
dice l'autore: "Dopo che ho attinto alla realtà a piene mani, io
spesso mi vergogno, anche se sono convinto che comunque questo
procedimento è legittimo". E' legittimo ed è ovvio che sia così,
per uno scrittore, ma in certe situazioni come in questa di
Siani, provoca domande inevitabili: "Ma che succede se mi devo
esporre non potendo usare nessuno di quei poveri trucchi per
velare la realtà di cui uno come me...possiede un'ampia
dotazione? Che cos'è questo esporsi con le proprie parole fino al
rischio personale?" Così si è esposto Siani, non perché era un
eroe ma perché era il suo lavoro, perché era l'unico modo a lui
riservato per avere un lavoro, e il posto. Ecco, la camorra qui è
vista come l'umiliazione che una collettività accetta di subire
come normalità.
***
Mentre sto raccontando di cosa parla questo libro sento
che devo dire anche come se ne parla, perché in esso si
realizza un perfetto equilibrio tra la dimensione del saggio e la
dimensione narrativa, due vie che sono sempre visibili nella
scrittura di Franchini; ma qui la turbata presenza dell'io
narrante, sempre nascosto e sempre in ogni riga percepibile, fa
sì che le due linee si fondino in una specie di autobiografia
indiretta in cui alla fine l'autore parla di sé in rapporto alla
vicenda che sta narrando, e ci appare come in filigrana il suo
autoritratto.
Il racconto di come presumibilmente si sarebbe arrivati a
decidere l'assassinio di Siani è sconcertante, perché è la
sintassi stessa, la forma stessa scelta dall'autore per entrare
nell'argomento, a tessere una tela di ragno intricata e
impalpabile, minacciosa e razionale, che tutto avvolge e nulla
spiega veramente.
***
L'autore nella sua ricerca incontra a via Caracciolo, o in un
bar, o in una scalcagnata sede di partito, o a via del Corso a
Roma, diverse persone di diversa provenienza, ma tutte realmente
esistenti, chi giornalista al Mattino e compagno di
lavoro di Siani, chi uomo politico, chi assessore, sindaco,
poliziotto, o pentito (è riportato anche il verbale di
interrogatorio di un pentito), e tutti fanno parte del famoso
"contesto" senza saperlo, e a ognuno vengono poste domande e
soprattutto di ognuno ci arriva la voce. Ognuno parla e di ognuno
è come sbobinato il discorso in presa diretta, con i suoi tic, i
suoi stereotipi le sue ripetizioni, in una polifonia che non è
solo mimetica, ma ha il suono incontrovertibile della
testimonianza accusatoria. E così uno di loro ad ogni piè
sospinto dice "niente" e prosegue, un altro ripete "non so se mi
spiego" oppure "se hai capito quello che voglio dire", un altro
ancora si aggrappa ai nomi, ai nomi degli scolari di una classe
dei bei tempi andati, e li commenta: "Era incredibile Sasà
Maisto, che soggetto! Ma Beppe, Rino, Michele, Umberto, Arturo?
So' tant'ann'... me facesse piacere d'e' sentì..."; c'è come un
continuo divagare, un continuo girare intorno alla cosa senza che
mai la cosa sia afferrata. Le ipotesi, le supposizioni, restano
sospese a mezz'aria, la verità non è nemmeno sfiorata, ma la
nebbia malsana che si solleva da tutti questi discorsi, quella si
vede, ed è tale da offuscare tutto e infettare anche l'aria che
si respira.
E così in virtù di un scelta stilistica, per preordinato
disordine, tutto vien detto senza che sia dichiarato
esplicitamente, tutto è implicito, nascosto nella scrittura, e
perciò acquista più forza e crea disagio, e tutto, ogni
particolare, ogni giro di frase, ogni cauta ammissione, ogni
ventilato sospetto, ogni dubbiosa intonazione, concorre a dare la
stessa impressione di morte civile e degrado morale. Così, per
esempio, quando si parla dei killer, che aspettano sotto casa il
povero Siani, e nell'attesa sfumacchiano, si sfottono, sputano
cicche, e pisciano quando ne hanno voglia, senza curarsi
di chi li vede. Non solo di delitto dunque si parla, ma di
degrado, perché - dice uno dei tanti personaggi interpellati -
questi giovani killer "sono animali, non esseri umani...perché
non hanno un passato, non hanno storia, non hanno niente"; non
sono più come i camorristi di una volta che avevano un codice e
un loro senso dell'onore. Questi sono senza onore e senza pietà.
"Se il capo camorrista ha bisogno di qualcosa dal comune, manda a
chiamare l'interessato o addirittura lo preleva, come si dice,
tra virgolette, e naturalmente in genere ottiene quello che
chiede...E se non lo può avere, l'ottiene lo stesso".
***
Ecco qual è la situazione a Torre Annunziata. Ma Torre Annunziata
è solo il fondo del bicchiere dove si deposita il torbidume.
Sopra, l'acqua del bicchiere può essere anche limpida come una
bella giornata napoletana. Ma basta rimestare un po' in
quell'acqua e tutto s'intorbida, la bella giornata s'offusca. E
allora uno pensa, come fa l'autore di questo libro: "Non è vero
che nascere da una parte o dall'altra è indifferente, perché se
non fosse nato a Napoli Giancarlo Siani avrebbe fatto sì
l'abusivo...ma per un periodo più breve, e non sarebbe
morto". E uno pensa ancora, come fa l'autore: "Meglio la
letteratura, che serve a poco, ma almeno è afona, avrebbe la voce
dell'interiorità, cioè quella che noi vogliamo darle. Meglio la
letteratura che concede alla tua voce tutto il tempo di
ripulirsi, di impostarsi, prima di uscire ad affrontare il mondo.
Meglio la letteratura che ti dà il tempo di renderti
presentabile, se non agli altri per lo meno a te stesso."
Questo rimorso, che è tensione morale, corre per tutto il libro,
è nella voce dell'autore che commenta continuamente la vicenda
mettendo continuamente in gioco se stesso. Alla fine quel che più
ci commuove non è solo la storia di Siani ma la storia di un
ragazzo - lo stesso io narrante - che come Siani voleva fare
anche lui il giornalista e che ha lasciato la sua città, e ora
indagando sulla morte dell'amico capisce perché l'ha lasciata e
perché non può più ritornarvi. Nella sua indagine scopre che
intorno alla morte di Siani c'è la complicità consapevole e
inconsapevole di una società civile che non sa più distinguersi
dalla società criminale perché il confine tra l'una e l'altra si
è fatto sempre più labile, si è confuso, e anche chi non lo sa
può essere partecipe di un disegno delittuoso: e perciò in questo
libro sono colpevoli tutti perché tutti o quasi tutti, fanno
parte del "contesto", l'amico, il sindaco, il poliziotto, il
politico, e perfino chi scrive e racconta la vicenda, l'io
narrante. Ed è così che vien fuori il suo autoritratto, quello
dell'"europeo scontento" che lui è, e quello del complice che lui
ha temuto di essere; quello dell'esiliato, del ferito
nell'identità, quello dell'amata appartenenza e del rifiuto
dell'appartenenza.
***
Ho scritto più volte che bisogna ripensare Napoli per liberarla
dalle troppe rappresentazioni che la coprono e dai luoghi comuni
terribilistici o autoindulgenti che affliggono la sua
letteratura. Qui nel libro di Franchini mi sembra che Napoli sia
stata ripensata e resa in un'immagine criticamente responsabile e
artisticamente riuscita. Ripensare la propria città e saperla
rappresentare in modo commovente, mantenendo nello steso tempo lo
sguardo freddo della verità, è cosa in fondo confortante. Se una
città sa raccontarsi così, con la voce dei suoi scrittori, (e
ricordo anche Starnone, anche De Silva) portando alla luce il suo
segreto malessere, vuol dire che è viva e può liberarsi dai mali
che l'affliggono. Vuol dire che Napoli è più grande ed ha più
risorse di quella Torre Annunziata camorrista che ha decretato la
morte di Siani; vuol dire che anche chi ha scritto
L'abusivo e anche il fatto che sia stato scritto questo
libro fa parte di quelle risorse.
***
Vorrei in ultimo osservare qualcosa sulla costruzione di questo
libro che - lo dico subito - non è un libro armonioso e non vuol
esserlo, ma fin nella sua struttura è un libro sbilenco,
sproporzionato, disarmonico. Per esempio per le prime cento
pagine e anche più, il continuo violento battibecco familiare tra
la madre sessantenne dell'autore e la nonna novantenne, così
ripetitivo e assillante, in cui una vorrebbe vedere l'altra morta
perché non ce la fa più a sopportarla, è piuttosto duro per il
lettore e per di più lo allontana dalla vera sostanza del libro
che, sulle prime, non si riesce nemmeno a sospettare.
L'autore ha voluto consapevolmente recitare un suo
introibo nelle viscere oscure di una degradata intimità
domestica dove ha luogo una recita, una specie di sceneggiata
dialettale e plateale di cui ha voluto mimare tutte le sequenze?
E perché lo ha fatto per più di cento pagine? Per una volontà di
radicamento antropologico nella realtà che sta per raccontare?
Come se prima di raccontare la sua storia avesse bisogno, lui
l'autore, di ambientarsi di nuovo nel luogo detestato e familiare
da cui era fuggito? Tutte queste ragioni sono possibili, ciò non
toglie che questa prima parte si avverta come uno scompenso che
può far nascere equivoci sulla vera natura del libro e potrebbe
perfino farlo mettere da parte innanzitempo; la qual cosa sarebbe
davvero sbagliata, è bene mettere il lettore sull'avviso. Ma più
avanti, quando il libro si fa di colpo appassionante, l'autore ci
dice lui stesso come l'ha costruito, e ce lo dice con un'immagine
bella e pertinente, quella del muro a secco. Che per essere
innalzato senza nessuna calce che leghi una pietra all'altra,
richiede una particolare maestria: "Allora ho capito che forse
stavo facendo una cosa simile, stavo scrivendo un muro a secco
usando vecchie e difformi pietre, le macerie inutili che si
accumulano in un angolo di ogni stanza della vita, quando si
sbaracca, prima di chiudersi la porta dietro le spalle, per
tasferirsi altrove. Così queste pagine sarebbero un muro a secco
eretto nell'unica terra in cui una costruzione del genere, così
fuori tempo e inutile, abbia senso, la terra dove non si vive
più."