Polifonia napoletana per una colpa civile

RAFFAELE LA CAPRIA

Polifonia napoletana per una colpa civile
Una vicenda di ordinaria infamia. "L'Abusivo" di Antonio Franchini edito da Marsilio racconta in forma di autobiografia indiretta la storia di un aspirante giornalista ucciso da un giovane killer perché così vuole la camorra. Un omicidio senza odio e senza ragioni, dove la sintassi tesse una tela di ragno che tutto avvolge e nulla spiega, mentre la collettività si lascia naufragare in una quotidiana umiliazione
RAFFAELE LA CAPRIA

Leggendo L'abusivo di Antonio Franchini (Marsilio, 2001) pensavo che i tre libri che meglio hanno raccontato Napoli in quest'ultima metà del secolo, e meglio e più profondamente ne hanno cercato il male nascosto, tre libri che in certo modo si corrispondono anche per la forma non proprio romanzesca della narrazione, sono tre finti réportages. E' un finto réportage Il mare non bagna Napoli della Ortese, è un finto réportage Mistero napoletano di Ermanno Rea, ed è un finto réportage L'abusivo di Antonio Franchini.
In ognuno di questi libri l'autore ritorna a Napoli, la città della giovinezze e dell'appartenenza, la città dove la sua identità si è formata; vi ritorna per fare una ricerca, per chiarire un fatto, per scoprire qualcosa che è accaduto nell'ambiente e tra le persone che ha conosciuto in gioventù. Luoghi e persone sono tutti nominati con il loro vero nome, e dunque in apparenza - ma solo in apparenza - l'indagine procede nei modi del réportage giornalistico: incontri, domande, interviste, inchieste, intrecciate con ricordi personali, impressioni di ieri e di oggi messe a confronto, e così via. Ognuno di questi scrittori mentre indaga sui fatti e sui personaggi che lo interessano, si accorge o fa capire che in realtà la sua indagine non approderà a nulla, a nulla di preciso, ma riguarda la città in cui è vissuto, la città della sua formazione, e questa città è rivista con un occhio diverso, distante, malinconico e insieme intollerante, intollerante al punto di mettere in crisi tutto il proprio passato speso lì dove - ora sa - era impossibile vivere. E' questo il risultato dell'indagine alla fin fine: come ho potuto vivere qui? Come ho potuto tollerarlo? E' dunque in questione, ed è lacerata, la propria identità, fatta di una ineliminabile appartenenza e di un ineliminabile disgusto. Da ora in poi ognuno di questi scrittori porterà dentro di sé questa ferita, sarà un ferito a morte, uno straniero, uno che se n'è andato via.

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Mi è capitato spesso di dire che a Napoli, tranne qualche rarissima eccezione non c'era mai stato, neppure nell'Ottocento, un vero romanzo borghese, un romanzo dove i problemi non solo esistenziali, ma di carattere civile e morale, propri di un borghese evoluto fossero rappresentati, e partendo da una realtà locale la facessero diventare universale. Così come oggi fanno tanti scrittori borghesi, da Singer a Grossman, da Philip Roth a Henry Roth, da Canetti a Naipaul. Partendo da un minuscolo paese della provincia americana, o mitteleuropea, o sperduto in un continente lontano, essi raggiungono verità e problemi che riguardano non solo i propri personaggi ma qualsiasi uomo in qualsiasi parte del mondo. Ecco, questo tipo di scrittore, a parer mio, a Napoli non esisteva; al suo posto c'era uno scrittore talmente legato alla sua città e alla sua circoscritta identità da non riuscire a fare altro che descriverne usi e costumi, caratteri ed ambienti, senza mai rompere il cerchio di una protettiva autoreferenzialità per attingere all'universalità necessaria ad ogni scrittore che voglia far sentire la sua voce appaesata al mondo.
Ma adesso, mettendo in fila i tre romanzi che ho citato, quello della Ortese, di Rea e di Franchini - tre scrittori che uno più diverso dall'altro non potrebbero essere, a me pare che questa tradizione più seria e responsabile abbia preso piede anche a Napoli.
Questi tre scrittori offrono della città e della sua borghesia un'immagine più complessa e meno appariscente, ne rivelano terribili e nascoste disarmonie, la raccontano insomma in un modo più vero e interessante. Né le solite descrizioni paupero-populiste dei cultori delle periferie umane e urbane, né le orripilanti mistificazioni esibizioniste di un Malaparte, né le esagerazioni sovreccitate dei tanti visitatori stranieri, tipo Sartre, che hanno visto in questa città soltanto lo specchio delle proprie aberrazioni o del proprio inguaribile estetismo. Niente di tutto questo nei tre scrittori napoletani, ma quella verità che appare solo quando lo sguardo è disincantato e sgombro da ogni illusione.

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Questo era solo un preambolo, necessario per parlare del libro di Antonio Franchini, L'Abusivo. Chi è l'abusivo è presto detto: è un giovane che vuol fare il giornalista e che intanto lavora in un giornale senza contratto e senza nessuna garanzia, proprio nessuna, né economica né di sicurezza personale. E nel romanzo di Franchini l'abusivo è Giancarlo Siani, corrispondente per Il Mattino di Napoli dal fronte della camorra di Torre Annunziata, ucciso per aver scritto cose che ai camorristi erano parse pericolose. Oppure ucciso per altri motivi, sempre però generati dall'ambiente, (dal "contesto" direbbe Sciascia) di cui è praticamente impossibile venire a capo perché praticamente i colpevoli potrebbero essere tutti. E questo non venire a capo di niente che però fa capo solo alla morte di un giovane abusivo di belle speranze, Giancarlo Siani, è il vero tema del libro di Franchini. Che si sente anche lui coinvolto personalmente per aver anche lui iniziato come il suo amico Siani, da giornalista, e per aver scelto poi la via più sicura della letteratura. L'assenza del rischio che la letteratura comporta e che Franchini sente ormai come una colpa e un rimorso, è un altro tema non secondario del libro.

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Dunque L'Abusivo di Franchini racconta "una vicenda di ordinaria infamia" dove un ragazzo che vuol essere assunto da un giornale per avere il sospirato posto, viene ucciso da un killer (un altro ragazzo tra i diciotto e i venticinque anni) senza odio e senza una ragione, ma solo perché così è stato comandato da un camorrista. Questa è la vera "ordinaria infamia" di una camorra che ormai non uccide più direttamente ma dà l'incarico di farlo a un killer che obbedisce come un robot e dice della vittima "a me nun m'ha fatt niente 'e male. Anzi era nu buon'omm', ma lo dovevo uccidere, così m'era stato chiesto".
Qui non si parla, in questo libro, della camorra per darne una versione in noir o in giallo alla maniera americana del pur bravo Veraldi, o alla maniera pulp e trucibalda del pur abile Ferrandino; e neppure se ne parla come di un'associazione criminale simile a quelle che infestano tutte le grandi capitali del mondo e che il cinema ha continuamente spettacolarizzato. No, qui si parla di qualcosa di più terribile perché si parla di una peste morale, di un destino indegno riservato ai singoli e alla collettività, i cui fili sono in mano al potere camorrista; e non se ne parla per interessare il lettore a come si svolge il fatto, ma per comunicargli lo stesso disgusto che prova l'autore a scriverne. E' un disgusto che, come ho detto, riguarda anche la sua idea di letteratura, perché ci dice l'autore: "Dopo che ho attinto alla realtà a piene mani, io spesso mi vergogno, anche se sono convinto che comunque questo procedimento è legittimo". E' legittimo ed è ovvio che sia così, per uno scrittore, ma in certe situazioni come in questa di Siani, provoca domande inevitabili: "Ma che succede se mi devo esporre non potendo usare nessuno di quei poveri trucchi per velare la realtà di cui uno come me...possiede un'ampia dotazione? Che cos'è questo esporsi con le proprie parole fino al rischio personale?" Così si è esposto Siani, non perché era un eroe ma perché era il suo lavoro, perché era l'unico modo a lui riservato per avere un lavoro, e il posto. Ecco, la camorra qui è vista come l'umiliazione che una collettività accetta di subire come normalità.

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Mentre sto raccontando di cosa parla questo libro sento che devo dire anche come se ne parla, perché in esso si realizza un perfetto equilibrio tra la dimensione del saggio e la dimensione narrativa, due vie che sono sempre visibili nella scrittura di Franchini; ma qui la turbata presenza dell'io narrante, sempre nascosto e sempre in ogni riga percepibile, fa sì che le due linee si fondino in una specie di autobiografia indiretta in cui alla fine l'autore parla di sé in rapporto alla vicenda che sta narrando, e ci appare come in filigrana il suo autoritratto.
Il racconto di come presumibilmente si sarebbe arrivati a decidere l'assassinio di Siani è sconcertante, perché è la sintassi stessa, la forma stessa scelta dall'autore per entrare nell'argomento, a tessere una tela di ragno intricata e impalpabile, minacciosa e razionale, che tutto avvolge e nulla spiega veramente.

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L'autore nella sua ricerca incontra a via Caracciolo, o in un bar, o in una scalcagnata sede di partito, o a via del Corso a Roma, diverse persone di diversa provenienza, ma tutte realmente esistenti, chi giornalista al Mattino e compagno di lavoro di Siani, chi uomo politico, chi assessore, sindaco, poliziotto, o pentito (è riportato anche il verbale di interrogatorio di un pentito), e tutti fanno parte del famoso "contesto" senza saperlo, e a ognuno vengono poste domande e soprattutto di ognuno ci arriva la voce. Ognuno parla e di ognuno è come sbobinato il discorso in presa diretta, con i suoi tic, i suoi stereotipi le sue ripetizioni, in una polifonia che non è solo mimetica, ma ha il suono incontrovertibile della testimonianza accusatoria. E così uno di loro ad ogni piè sospinto dice "niente" e prosegue, un altro ripete "non so se mi spiego" oppure "se hai capito quello che voglio dire", un altro ancora si aggrappa ai nomi, ai nomi degli scolari di una classe dei bei tempi andati, e li commenta: "Era incredibile Sasà Maisto, che soggetto! Ma Beppe, Rino, Michele, Umberto, Arturo? So' tant'ann'... me facesse piacere d'e' sentì..."; c'è come un continuo divagare, un continuo girare intorno alla cosa senza che mai la cosa sia afferrata. Le ipotesi, le supposizioni, restano sospese a mezz'aria, la verità non è nemmeno sfiorata, ma la nebbia malsana che si solleva da tutti questi discorsi, quella si vede, ed è tale da offuscare tutto e infettare anche l'aria che si respira.
E così in virtù di un scelta stilistica, per preordinato disordine, tutto vien detto senza che sia dichiarato esplicitamente, tutto è implicito, nascosto nella scrittura, e perciò acquista più forza e crea disagio, e tutto, ogni particolare, ogni giro di frase, ogni cauta ammissione, ogni ventilato sospetto, ogni dubbiosa intonazione, concorre a dare la stessa impressione di morte civile e degrado morale. Così, per esempio, quando si parla dei killer, che aspettano sotto casa il povero Siani, e nell'attesa sfumacchiano, si sfottono, sputano cicche, e pisciano quando ne hanno voglia, senza curarsi di chi li vede. Non solo di delitto dunque si parla, ma di degrado, perché - dice uno dei tanti personaggi interpellati - questi giovani killer "sono animali, non esseri umani...perché non hanno un passato, non hanno storia, non hanno niente"; non sono più come i camorristi di una volta che avevano un codice e un loro senso dell'onore. Questi sono senza onore e senza pietà. "Se il capo camorrista ha bisogno di qualcosa dal comune, manda a chiamare l'interessato o addirittura lo preleva, come si dice, tra virgolette, e naturalmente in genere ottiene quello che chiede...E se non lo può avere, l'ottiene lo stesso".

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Ecco qual è la situazione a Torre Annunziata. Ma Torre Annunziata è solo il fondo del bicchiere dove si deposita il torbidume. Sopra, l'acqua del bicchiere può essere anche limpida come una bella giornata napoletana. Ma basta rimestare un po' in quell'acqua e tutto s'intorbida, la bella giornata s'offusca. E allora uno pensa, come fa l'autore di questo libro: "Non è vero che nascere da una parte o dall'altra è indifferente, perché se non fosse nato a Napoli Giancarlo Siani avrebbe fatto sì l'abusivo...ma per un periodo più breve, e non sarebbe morto". E uno pensa ancora, come fa l'autore: "Meglio la letteratura, che serve a poco, ma almeno è afona, avrebbe la voce dell'interiorità, cioè quella che noi vogliamo darle. Meglio la letteratura che concede alla tua voce tutto il tempo di ripulirsi, di impostarsi, prima di uscire ad affrontare il mondo. Meglio la letteratura che ti dà il tempo di renderti presentabile, se non agli altri per lo meno a te stesso."
Questo rimorso, che è tensione morale, corre per tutto il libro, è nella voce dell'autore che commenta continuamente la vicenda mettendo continuamente in gioco se stesso. Alla fine quel che più ci commuove non è solo la storia di Siani ma la storia di un ragazzo - lo stesso io narrante - che come Siani voleva fare anche lui il giornalista e che ha lasciato la sua città, e ora indagando sulla morte dell'amico capisce perché l'ha lasciata e perché non può più ritornarvi. Nella sua indagine scopre che intorno alla morte di Siani c'è la complicità consapevole e inconsapevole di una società civile che non sa più distinguersi dalla società criminale perché il confine tra l'una e l'altra si è fatto sempre più labile, si è confuso, e anche chi non lo sa può essere partecipe di un disegno delittuoso: e perciò in questo libro sono colpevoli tutti perché tutti o quasi tutti, fanno parte del "contesto", l'amico, il sindaco, il poliziotto, il politico, e perfino chi scrive e racconta la vicenda, l'io narrante. Ed è così che vien fuori il suo autoritratto, quello dell'"europeo scontento" che lui è, e quello del complice che lui ha temuto di essere; quello dell'esiliato, del ferito nell'identità, quello dell'amata appartenenza e del rifiuto dell'appartenenza.

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Ho scritto più volte che bisogna ripensare Napoli per liberarla dalle troppe rappresentazioni che la coprono e dai luoghi comuni terribilistici o autoindulgenti che affliggono la sua letteratura. Qui nel libro di Franchini mi sembra che Napoli sia stata ripensata e resa in un'immagine criticamente responsabile e artisticamente riuscita. Ripensare la propria città e saperla rappresentare in modo commovente, mantenendo nello steso tempo lo sguardo freddo della verità, è cosa in fondo confortante. Se una città sa raccontarsi così, con la voce dei suoi scrittori, (e ricordo anche Starnone, anche De Silva) portando alla luce il suo segreto malessere, vuol dire che è viva e può liberarsi dai mali che l'affliggono. Vuol dire che Napoli è più grande ed ha più risorse di quella Torre Annunziata camorrista che ha decretato la morte di Siani; vuol dire che anche chi ha scritto L'abusivo e anche il fatto che sia stato scritto questo libro fa parte di quelle risorse.

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Vorrei in ultimo osservare qualcosa sulla costruzione di questo libro che - lo dico subito - non è un libro armonioso e non vuol esserlo, ma fin nella sua struttura è un libro sbilenco, sproporzionato, disarmonico. Per esempio per le prime cento pagine e anche più, il continuo violento battibecco familiare tra la madre sessantenne dell'autore e la nonna novantenne, così ripetitivo e assillante, in cui una vorrebbe vedere l'altra morta perché non ce la fa più a sopportarla, è piuttosto duro per il lettore e per di più lo allontana dalla vera sostanza del libro che, sulle prime, non si riesce nemmeno a sospettare.
L'autore ha voluto consapevolmente recitare un suo introibo nelle viscere oscure di una degradata intimità domestica dove ha luogo una recita, una specie di sceneggiata dialettale e plateale di cui ha voluto mimare tutte le sequenze? E perché lo ha fatto per più di cento pagine? Per una volontà di radicamento antropologico nella realtà che sta per raccontare? Come se prima di raccontare la sua storia avesse bisogno, lui l'autore, di ambientarsi di nuovo nel luogo detestato e familiare da cui era fuggito? Tutte queste ragioni sono possibili, ciò non toglie che questa prima parte si avverta come uno scompenso che può far nascere equivoci sulla vera natura del libro e potrebbe perfino farlo mettere da parte innanzitempo; la qual cosa sarebbe davvero sbagliata, è bene mettere il lettore sull'avviso. Ma più avanti, quando il libro si fa di colpo appassionante, l'autore ci dice lui stesso come l'ha costruito, e ce lo dice con un'immagine bella e pertinente, quella del muro a secco. Che per essere innalzato senza nessuna calce che leghi una pietra all'altra, richiede una particolare maestria: "Allora ho capito che forse stavo facendo una cosa simile, stavo scrivendo un muro a secco usando vecchie e difformi pietre, le macerie inutili che si accumulano in un angolo di ogni stanza della vita, quando si sbaracca, prima di chiudersi la porta dietro le spalle, per tasferirsi altrove. Così queste pagine sarebbero un muro a secco eretto nell'unica terra in cui una costruzione del genere, così fuori tempo e inutile, abbia senso, la terra dove non si vive più."

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