Un giorno in Palestina. Le donne in nero raccontano

CAMILLA LAI

Un giorno in Palestina. Le donne in nero raccontano
L'inferno quotidiano in Cisgiordania e Gaza, fatto di piccoli e grandi soprusi, di umiliazioni e pestaggi, di miseria e di morte
CAMILLA LAI

Nel 1988 delle donne israeliane cominciarono a manifestare contro l'occupazione militare. Dall'Italia arrivarono altre donne. Da allora Donne in Nero, con pacifisti israeliani e palestinesi, promuove viaggi di donne nella terra palestinese occupata dall'esercito, a rotazione, per garantire una presenza continua che testimoni la quotidianità della repressione. Luisa Morgantini, presidente dell'Intergruppo per la pace al Parlamento europeo, è appena tornata dall' ultima missione, dal 13 al 22 agosto. Nella manifestazione all'Orient House, che gli israeliani hanno occupato il 10 agosto, hanno visto che i giornali mentono quando parlano di "scontri": c'è chi manifesta pacificamente e un soldato che d'improvviso esce, perché un palestinese sventola la bandiera o perché sente una frase che non lo aggrada, e comincia a picchiare. "La cosa più drammatica - racconta Morgantini- è la chiusura dei territori. Se c'è il coprifuoco non si può uscire nemmeno a piedi. Altrimenti, solo a piedi, triplicando i costi di trasporto. Anche le ambulanze vengono bloccate. La gente muore ai posti di controllo perché non ha visti per l'ospedale. Abbiamo visto 4 donne partorire ai blocchi e non tutti i neonati sono arrivati vivi. Ma i palestinesi hanno sviluppato un'arte magica della sopravvivenza". Ad Al'Kaher, dove c'è la strada principale per Hebron, Donne in Nero, con il sindaco del villaggio, hanno tentato di aprire la strada. Il sindaco ha ottenuto un bulldozer, con notevole rischio per chi lo ha fornito, che avrebbe visto il suo mezzo di sostentamento sequestrato. Mentre 150 persone formavano una barriera, uno straordinario ragazzino di 10 anni ha guidato il bulldozer contro i cumuli di terra per oltre 2 ore fino a che anche l'ultimo era stato spianato. L'esercito guardava ma non è intervenuto. Basta questo per ribadire chi ha il potere: se voglio, posso annientarti. Se esisti, come esisti e per quanto esisti, lo decido io. "E' stato importante far capire che non si accetta l'occupazione passivamente. Chiusura dei territori vuol dire prigionia per i palestinesi". E' un vero e proprio embargo: di merci, persone, alimenti, equipaggiamenti sanitari. Posti di blocco nei pressi dell'università palestinese, a Bir Zeit, negano il diritto all'istruzione. "Le scene ai checkpoint sono surreali: vecchi con pesanti borse della spesa, bambini, donne incinte. Interi camion di rifornimenti alimentari scaricati a mano. Matrimoni interrotti nell'attesa di andare a prendere la sposa nel villaggio al di là del blocco, per ore, in ritardo. Inutili
dal punto di vista della sicurezza, visto che nessun kamikaze si sognerebbe di passare attraverso un posto di blocco imbottito di esplosivo, servono solo a rendere la vita insopportabile ai palestinesi". Nel tentativo di riappropriarsi della fascia costiera della striscia di Gaza per "ripulire il territorio dai palestinesi", dalla seconda Intifada (28 settembre 2000), Israele ha istituito 63 nuovi posti di blocco. Gaza è ormai isolata. Gerusalemme irraggiungibile. Il villaggio di El Mawasi è circondato da insediamenti di coloni e quindi, per il governo, pericoloso. Da settembre vige il coprifuoco e l'ingresso è interdetto anche alla Croce Rossa. "Arriviamo verso le 5. c'è una fila di almeno 70 persone bloccate dalle 11. Proviamo a forzarlo, con le mani alzate, non senza timori: qui avevano sparato alla delegazione parlamentare. Dall'alto dei suoi 50 metri il soldato ci urla con l'altoparlante di fermarci o avrebbe sparato. Siamo riuscite a negoziare: 3 di noi sarebbero rimaste e i palestinesi sarebbero passati 5 a 5. Solo uno studente è rimasto fuori: non si trovava al villaggio nei 3 giorni in cui le autorità israeliane avevano registrato gli abitanti di El Mawasi. Ormai non può più tornare a casa. Non potrò mai dimenticare gli sguardi di umiliazione e rabbia dei palestinesi. Noi europei potevamo negoziare con i soldati, non quelle persone stanche e affamate, in diritto di tornare a casa. La vergogna ha ceduto solo di fronte a 70 persone che sono potute rientrare nel villaggio".
Altrettanto preoccupante è il degrado ambientale, la shaved land (terra rasa) che circonda Gaza. Gli israeliani si vantano di avere trasformato il deserto in un giardino, ma aranci, ulivi, palme sono stati sradicati, bruciati, tagliati, per facilitare il compito ai cecchini che controllano gli insediamenti dei coloni. Il centro di Hebron, città millenaria, è stato distrutto per far posto alle alte costruzioni dei coloni. "Hebron è l'orrore dell'inferno. Sulle porte dei negozi palestinesi è stata dipinta la stella di David: che amnesia storica, come la croce uncinata".
La spirale di violenza richiede un intervento concreto dell'Europa. Solo la fine dell'occupazione può portare a una soluzione del conflitto, ma osservatori internazionali possono intanto testimoniare che per ogni azione compiuta da un palestinese, Israele punisce la collettività. Per ogni bomba muore un bambino palestinese, invisibile, senza nome, senza storia, che paga l'occupazione israeliana.
"I palestinesi ci hanno salutato così: 'Non avete idea di quanta forza ci dia la vostra presenza qui. Ci tiene legati alla speranza che non tutto il mondo è votato alla violenza e capisce che non vogliamo la distruzione dello stato di Israele, vogliamo solo i nostri diritti, vogliamo poter vivere, lavorare, cantare nella nostra terra liberamente, senza che la nostra vita sia dettata dai soldati'".

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