Protezionisti mondializzati

CRISTIANO PERUGINI * - FRANCESCO MUSOTTI * *

Protezionisti mondializzati
Il dibattito sulla globalizzazione risulta troppo spesso viziato dalle contrapposizioni tra due "partiti". Si generalizzano le conclusioni politiche dove invece si dovrebbero scoprire le differenze
CRISTIANO PERUGINI * - FRANCESCO MUSOTTI * *


E'impressionante la sicurezza di argomenti che mostrano sia i sostenitori dei processi di globalizzazione, sia quanti condividono i sentimenti e le idee del "popolo di Seattle". E altrettanto notevole è accorgersi che il confronto, oltre che dividere destra e sinistra, alimenta fuochi (dialettici) all'interno della stessa sinistra.
Sulle prime sembrerebbero collidere persino due impostazioni di policy-making. Una, alla Cavallaro, aderente alle prescrizioni della teoria più compatta (il libero scambio che potenzia il modo di produzione capitalistico frantumando ogni residua struttura pre-moderna) e vivaddio senza alcun pudore di riscoprire quanto di comune può esservi fra il pensiero liberale e quello marxista, se è vero che il secondo si concepisce come superamento dal "di dentro" del primo. L'altra, alla Calafati, attenta allo spoglio delle evidenze empiriche e al disincanto nei confronti di ricette stringenti. In effetti non è così. La seconda posizione non è meno compatta della prima, con tutti i suoi no. Il popolo di Seattle vede nelle globalizzazione quello che vuole e può, secondo i filtri concettuali-ideologici con cui decifra i fatti nei confronti dei quali insorge. I pericoli rilevati da Calafati sono fuori discussione, ma costituiscono una parte, e quindi una riduzione, della realtà. Ma altri aspetti si possono cogliere.
Se un maestro come Paul Bairoch ci ricorda che il protezionismo è stato la regola e il libero scambio l'eccezione, il mondo che conosciamo, con tutte le sue storture, è soprattutto figlio del protezionismo. Dosi crescenti di libero scambio possono certamente produrre nuovi guasti, ma cogliamo segni per accreditare anche l'ipotesi alternativa e cioè di cambiamenti in positivo.
Pensiamo alla globalizzazione della domanda che, rispetto a quella dell'offerta è sempre superficialmente discussa. Eppure può schiudere tanti nuovi mercati a saperi finora soffocati in contesti locali ristretti.
Alla globalizzazione delle conoscenze, sottolineata da Cavallaro attraverso Marx, in cui si fertilizzano reciprocamente i saperi locali (pratici) e il sapere tecnico-scientifico (codificato). Alla globalizzazione produttiva governata dalle piccole e medie imprese organizzate in distretti industriali, così numerose e dinamiche nel nostro paese. Che è ricerca di più bassi costi del lavoro, ma anche occasione di creazione di capitale umano in aree emergenti.
Alla globalizzazione produttiva in generale, che approfondisce la divisione territoriale del lavoro, valorizzando le varietà dei territori coinvolti.
E pensiamo anche alla globalizzazione dei mercati agricoli, di cui poco ci si cura nei paesi post-industriali come il nostro, e che invece è tanto rilevante, quanto l'attività agricola è ancora diffusa a livello mondiale. Proprio su questa vorremmo soffermarci riprendendo il riferimento di Calafati alla Polonia. Per vero dire, su molti dei prodotti indifferenziati (le commodities) la Polonia (così come altri paesi dell'est europeo) è ben più competitiva dell'Ue, tanto è vero che è quest'ultima a considerare "pericoloso" il proprio processo d'allargamento a Est, da tale punto di vista. Ma facciamo pure il caso di una liberalizzazione che conduca alla caduta dei prezzi interni. Perché ne dovrebbe derivare la distruzione del settore agricolo? Laddove si formino prezzi più bassi per gli agricoltori, si può sempre cambiare il modo di sostenerne i redditi.
Perché ostinarsi (via protezione alle frontiere) su un innalzamento dei prezzi altamente distorsivo (alla produzione e al consumo nazionali ed internazionali), non selettivo (fra l'agricoltore che rispetta le risorse naturali e quello che utilizzandole intensivamente le danneggia), poco efficace (a livello internazionale si stima che in media solo un terzo della garanzia approntata in questa forma beneficia gli agricoltori, mentre il resto si perde a monte e a valle degli stessi), poco trasparente (quanti consumatori dell'Unione europea sanno di pagare, per i prodotti agricoli, fino al 50% in più a causa delle politiche commerciali in vigore?) e regressivo (sono le fasce di popolazione più povere a spendere una porzione maggiore del loro reddito disponibile in alimenti).
La stessa garanzia, piuttosto che in forma di sovrapprezzi, potrebbe concretarsi in trasferimenti diretti di reddito, via bilancio pubblico, una volta reperite le risorse necessarie tramite l'imposizione diretta e progressiva (cosicché a pagare sarebbe la sfera dei contribuenti e non quella del consumo), in cambio di beni e servizi extra-mercantili (esternalità, beni pubblici), che gli agricoltori forniscono con la loro attività.
In questa direzione, fra tante esitazioni e passi indietro, sta procedendo il Wto, con gli impegni assunti dai paesi membri, per effetto dell'Uruguay Round Agreement (1994) e con la previsione di un trattamento differenziato per i paesi in via di sviluppo (maggiore accesso ai mercati e minori impegni di riduzione delle tariffe e del sostegno interno).
In questa cornice chi, alla fine, gioca la parte del conservatore e chi quella del progressista-innovatore circa i processi di liberalizzazione?
Se l'insegnamento di Bairoch è giusto, si deduce che prima di muoversi in campo aperto le forze del capitalismo si sono sempre formate, se non in un ambiente vergine, almeno al riparo di qualche barriera. Il problema, caso per caso, è dunque il come e il quando dell'apertura.
In altri termini: la globalizzazione è un processo intricatissimo, ricco di pieghe da studiare, laicamente, una ad una. Quello che più preoccupa, violenze e repressioni di piazza a parte (e qui occorrerebbe aprire un altro discorso), è il divario che si sta creando fra quanto abbiamo da capire e tante presunte certezze di entrambi i partiti in contesa.


* Università di Siena
** Università di Perugia


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