"Il nostro nemico è l'indifferenza del mondo"
"Il problema più grave è quello dell'indifferenza perché è
la maggioranza che è indifferente, ed è la maggioranza che
determina gli orientamenti dei governi. Chi vuole il male e chi
cerca la pace sono sempre delle minoranze. Quindi l'importante è
far uscire dall'indifferenza la maggior parte della gente, far sì
che si renda conto della situazione per evitare che si schieri
quando è ormai troppo tardi. Il superamento dell'indifferenza è
importante anche a livello internazionale, perché la comunità
internazionale deve assumersi le proprie responsabilità in questo
conflitto: è stato con il consenso e l'appoggio della comunità
internazionale che è nato lo stato di Israele. Ora Israele e i
palestinesi non si possono arrangiare da soli. Inoltre c'è da
tener conto una sorta di sfasatura di tempi nella ricerca della
pace: Israele attualmente crede di poter ancora governare le
situazioni di conflitto, ma nello stesso tempo di non potersi
spingere troppo oltre per non pagare un caro prezzo, mentre da
parte palestinese c'è la volontà oggi di fare la pace. Temo che
la situazione possa evolvere drammaticamente nell'esplosione di
un conflitto regionale, o in qualcosa di molto più grave di ciò
che stiamo vivendo, a quel punto sarà Israele a voler fare la
pace a tutti i costi, allora i palestinese chiederanno un prezzo
più alto". Le notizie che arrivano da Israele sono sempre più
preoccupanti... Dopo il fallimento delle trattative di Camp David, un anno
fa, siamo entrati in una situazione di normalità di occupazione
molto violenta. Avevamo vissuto un periodo, dal '93 (Oslo) fino
allo scorso anno, di attesa: i palestinesi attendevano
l'applicazione degli accordi di Oslo. Il fallimento delle
trattative di Camp David è stato letto come un fallimento degli
accordi di Oslo e quindi un ritorno ad una situazione di
occupazione. E di fronte all'occupazione la popolazione
palestinese oppone resistenza. Secondo Sandro Viola, sulle pagine de "La Repubblica", c'è un
ritorno al 1937, l'anno più sanguinoso della rivolta araba contro
l'immigrazione sionista. E' d'accordo? Non sono d'accordo in quanto penso che i dirigenti e la
maggior parte della popolazione palestinese abbiano ormai
acquisito la convinzione che bisogna trovare un compromesso sul
territorio con Israele. Non è più la situazione del '37. Dopo il
'48 i palestinesi hanno accettato l'idea di un compromesso,
quindi di rinunciare a una parte di quella che considerano la
loro patria, l'intera Palestina (hanno rinunciato al 78% del
territorio), ma quello che vogliono è la piena sovranità sul
restante 22%, cioè la Cisgiordania e la striscia di Gaza. Da
parte israeliana si è affermato che era troppo presto per fissare
definitivamente i confini, anche se una parte della stessa destra
sostiene che si debbano discutere e verificare, mentre i
laburisti si sono convinti che sia giunto il momento di fissarli
in modo definitivo. Quali soluzioni auspica, quali pensa siano realmente attuabili
nel breve periodo e quali nel lungo periodo? A breve termine è la cessazione della violenza. La
violenza non sono tanto i lanci di pietre o qualche sparo
sporadico e irrisorio che avvengono da parte palestinese, ma
piuttosto il blocco dei territori, che impedisce una vita normale
a due milioni e mezzo di persone e la colonizzazione, che è
un'occupazione permanente e una permanente violazione del diritto
internazionale. A medio termine bisogna riprendere i negoziati:
non dei "faccia a faccia" israelo-palestinesi dove le forze in
gioco sono troppo diseguali, ma dei negoziati garantiti e
allargati alla comunità internazionale, dove non si giochi sul
mercanteggiare alcune opzioni rispetto ad altre come se tutto
fosse trattabile e discutibile. I negoziati devono essere
obbligatoriamente riportati, grazie alla comunità internazionale,
al rispetto del diritto internazionale, delle risoluzioni
dell'Onu e delle Convenzioni di Ginevra. Questa deve essere la
base per i negoziati. Questa è la strada poter arrivare realmente
ad uno stato indipendente palestinese: uno stato le cui autorità
possano controllare le frontiere, gestire i permessi di
residenza, sfruttare le risorse naturali come l'acqua (le
sorgenti sono in territorio palestinese e perciò gli israeliani
non possono pretendere che siano di loro compentenza), significa
essere a pieno titolo uno stato indipendente che dovrà coesistere
con un altro stato. A lungo termine però non si potrà fare a meno
di arrivare ad un'unica entità israelo-palestinese. Con due stati
resterebbe viva la paura dell'altro, la paura della minoranza,
che c'è già ora e che impedirebbe un confronto tra realtà
culturali e religiose diverse. Questo naturalmente è legato alla
natura ebraica dello stato di Israele che mal si combina già
adesso con la presenza di una minoranza araba al suo interno,
attualmente è del 21% ma è destinata a crescere a causa del
diverso tasso di incremento demografico. Si dovrà quindi arrivare
ad un'unica entità israelo-palestinese, poco importa la formula
giuridico-politica: l'ideale sarebbe un'unica entità per due
realtà diverse, questo eviterebbe che ciascuna delle due
mantenesse una situazione di paura dell'altro, di difesa previa
dell'altro, di mancanza di sicurezza dei propri confini. Ogni
altra soluzione non farebbe che riproporre il problema del
conflitto arabo-israeliano.
Parla Michael Warschawski, giornalista e pacifista
israeliano: "Basta con l'occupazione che genera la violenza"
ANNA RE
E' quanto sostiene Michael Warschawski, che abbiamo incontrato a
Passo del Tonale, in occasione della settimana culturale
organizzata dall'associazione Tonalestate dal titolo: "2001
Odissea nell'umano". Figlio del rabbino capo di Salisburgo,
Warschawski ha visto deportare tanti amici e parenti, durante la
persecuzione nazista, poi studente in una delle più importanti
scuole talmudiche di Gerusalemme, ha vissuto con orrore la guerra
dei Sei giorni. Cittadino israeliano di Gerusalemme, disertore
per tre volte dell'esercito in Libano, è stato arrestato più
volte, anche per il suo deciso impegno politico a favore dei
palestinesi.