"Il nostro nemico è l'indifferenza del mondo"

ANNA RE

"Il nostro nemico è l'indifferenza del mondo"
Parla Michael Warschawski, giornalista e pacifista israeliano: "Basta con l'occupazione che genera la violenza"
ANNA RE


"Il problema più grave è quello dell'indifferenza perché è la maggioranza che è indifferente, ed è la maggioranza che determina gli orientamenti dei governi. Chi vuole il male e chi cerca la pace sono sempre delle minoranze. Quindi l'importante è far uscire dall'indifferenza la maggior parte della gente, far sì che si renda conto della situazione per evitare che si schieri quando è ormai troppo tardi. Il superamento dell'indifferenza è importante anche a livello internazionale, perché la comunità internazionale deve assumersi le proprie responsabilità in questo conflitto: è stato con il consenso e l'appoggio della comunità internazionale che è nato lo stato di Israele. Ora Israele e i palestinesi non si possono arrangiare da soli. Inoltre c'è da tener conto una sorta di sfasatura di tempi nella ricerca della pace: Israele attualmente crede di poter ancora governare le situazioni di conflitto, ma nello stesso tempo di non potersi spingere troppo oltre per non pagare un caro prezzo, mentre da parte palestinese c'è la volontà oggi di fare la pace. Temo che la situazione possa evolvere drammaticamente nell'esplosione di un conflitto regionale, o in qualcosa di molto più grave di ciò che stiamo vivendo, a quel punto sarà Israele a voler fare la pace a tutti i costi, allora i palestinese chiederanno un prezzo più alto".
E' quanto sostiene Michael Warschawski, che abbiamo incontrato a Passo del Tonale, in occasione della settimana culturale organizzata dall'associazione Tonalestate dal titolo: "2001 Odissea nell'umano". Figlio del rabbino capo di Salisburgo, Warschawski ha visto deportare tanti amici e parenti, durante la persecuzione nazista, poi studente in una delle più importanti scuole talmudiche di Gerusalemme, ha vissuto con orrore la guerra dei Sei giorni. Cittadino israeliano di Gerusalemme, disertore per tre volte dell'esercito in Libano, è stato arrestato più volte, anche per il suo deciso impegno politico a favore dei palestinesi.

Le notizie che arrivano da Israele sono sempre più preoccupanti...

Dopo il fallimento delle trattative di Camp David, un anno fa, siamo entrati in una situazione di normalità di occupazione molto violenta. Avevamo vissuto un periodo, dal '93 (Oslo) fino allo scorso anno, di attesa: i palestinesi attendevano l'applicazione degli accordi di Oslo. Il fallimento delle trattative di Camp David è stato letto come un fallimento degli accordi di Oslo e quindi un ritorno ad una situazione di occupazione. E di fronte all'occupazione la popolazione palestinese oppone resistenza.

Secondo Sandro Viola, sulle pagine de "La Repubblica", c'è un ritorno al 1937, l'anno più sanguinoso della rivolta araba contro l'immigrazione sionista. E' d'accordo?

Non sono d'accordo in quanto penso che i dirigenti e la maggior parte della popolazione palestinese abbiano ormai acquisito la convinzione che bisogna trovare un compromesso sul territorio con Israele. Non è più la situazione del '37. Dopo il '48 i palestinesi hanno accettato l'idea di un compromesso, quindi di rinunciare a una parte di quella che considerano la loro patria, l'intera Palestina (hanno rinunciato al 78% del territorio), ma quello che vogliono è la piena sovranità sul restante 22%, cioè la Cisgiordania e la striscia di Gaza. Da parte israeliana si è affermato che era troppo presto per fissare definitivamente i confini, anche se una parte della stessa destra sostiene che si debbano discutere e verificare, mentre i laburisti si sono convinti che sia giunto il momento di fissarli in modo definitivo.

Quali soluzioni auspica, quali pensa siano realmente attuabili nel breve periodo e quali nel lungo periodo?

A breve termine è la cessazione della violenza. La violenza non sono tanto i lanci di pietre o qualche sparo sporadico e irrisorio che avvengono da parte palestinese, ma piuttosto il blocco dei territori, che impedisce una vita normale a due milioni e mezzo di persone e la colonizzazione, che è un'occupazione permanente e una permanente violazione del diritto internazionale. A medio termine bisogna riprendere i negoziati: non dei "faccia a faccia" israelo-palestinesi dove le forze in gioco sono troppo diseguali, ma dei negoziati garantiti e allargati alla comunità internazionale, dove non si giochi sul mercanteggiare alcune opzioni rispetto ad altre come se tutto fosse trattabile e discutibile. I negoziati devono essere obbligatoriamente riportati, grazie alla comunità internazionale, al rispetto del diritto internazionale, delle risoluzioni dell'Onu e delle Convenzioni di Ginevra. Questa deve essere la base per i negoziati. Questa è la strada poter arrivare realmente ad uno stato indipendente palestinese: uno stato le cui autorità possano controllare le frontiere, gestire i permessi di residenza, sfruttare le risorse naturali come l'acqua (le sorgenti sono in territorio palestinese e perciò gli israeliani non possono pretendere che siano di loro compentenza), significa essere a pieno titolo uno stato indipendente che dovrà coesistere con un altro stato. A lungo termine però non si potrà fare a meno di arrivare ad un'unica entità israelo-palestinese. Con due stati resterebbe viva la paura dell'altro, la paura della minoranza, che c'è già ora e che impedirebbe un confronto tra realtà culturali e religiose diverse. Questo naturalmente è legato alla natura ebraica dello stato di Israele che mal si combina già adesso con la presenza di una minoranza araba al suo interno, attualmente è del 21% ma è destinata a crescere a causa del diverso tasso di incremento demografico. Si dovrà quindi arrivare ad un'unica entità israelo-palestinese, poco importa la formula giuridico-politica: l'ideale sarebbe un'unica entità per due realtà diverse, questo eviterebbe che ciascuna delle due mantenesse una situazione di paura dell'altro, di difesa previa dell'altro, di mancanza di sicurezza dei propri confini. Ogni altra soluzione non farebbe che riproporre il problema del conflitto arabo-israeliano.

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