Nella morsa
dei Taleban
Iventiquattro membri dell'organizzazione Shelter Now
International, otto stranieri e sedici afghani, imprigionati
domenica dai Taleban con l'accusa di proselitismo cristiano, sono
ancora sotto arresto a Kabul. Germania, Australia e Stati Uniti
continuano a premere presso l'ambasciata dell'Emirato afghano a
Islamabad per il rilascio dei loro cittadini, ma per ora tutti i
tentativi di contattare il Ministero della Promozione e della
Virtù, sono risultati infruttuosi. Anche se nel territorio
controllato dai Taleban il proselitismo religioso è vietato e
punibile con la morte - e ieri con l'annuncio in pompa magna
delle autorità di Kabul della scoperta di "migliaia di materiali
video cristiani" si fa capire che alcune delle persone arrestate
della Ong potrebbero rischiare la pena di morte -, alla fine
l'incriminazione dei volontari di Shelter Now International,
potrebbe piuttosto essere una mossa tattica per sbloccare la
situazione di embargo politico e economico a cui l'Afghanistan è
oggetto da diversi anni. Gli otto cittadini occidentali si
troverebbero così trasformati in merce di scambio per ottenere un
allentamento dell'embargo imposto dalle Nazioni Unite e la
risoluzione dell'attuale crisi potrebbe dipendere dalla
disponibilità di mediazione dell'organismo internazionale. Ben più preoccupante, invece, si presenta la situazione
dei sedici afghani che lavoravano presso gli uffici della Shelter
Now International, i quali, senza l'ombrello diplomatico che
"protegge" i loro colleghi, rischiano seriamente la pena di
morte. Oltre a loro, si teme per il trattamento a cui verranno
sottoposti cinquantanove bambini spediti in un "centro di
correzione" per "disintossicarsi" da eventuali insegnamenti
cristiani assorbiti durante il loro contatto con l'organizzazione
tedesca. Sono le stesse autorità a decidere chi ha il diritto di
ricevere la razione ed è logico credere che chiunque non goda
della loro fiducia difficilmente potrà presentarsi ai centri di
distribuzione. I più disperati arrivano a trafugare beni
barattabili al mercato nero, attività particolarmente pericolosa
perché se la polizia religiosa scopre un ladro, la punizione
spesso è l'amputazione della mano. L'oppressione delle leggi
islamiche, dirette specialmente contro le donne, a Kabul è
evidente più che altrove: in una città che negli anni Sessanta e
Settanta era mèta di un turismo alternativo, nessuna donna può
circolare se non accompagnata da un parente e l'unico lavoro oggi
possibile è quello nelle corsie femminili degli ospedali o in
alcuni (pochi) uffici ministeriali. E in un Paese da vent'anni in
guerra, il numero di vedove è altissimo. "Come fate?", chiedo ad
una delle poche donne cui mi è concesso di parlare, una vedova
con cinque figli dai 2 ai 7 anni. "Mangiamo una volta al giorno
una fetta di nan imbevuta in un zuppa". Mahir, il più piccolo ha
smesso di piangere da pochi minuti per la fame; è spossato e dai
suoi occhi, due perle nere incastonate in una faccia già vecchia
ricoperta da una pelle incartapecorita, non scaturisce neppure
una lacrima. Anche quelle sono preziose, qui a Kabul. "Colpa
dell'embargo dell'Onu" spiega Hasam, la mia "guida". "Non solo",
mi lascio sfuggire, guadagnandomi uno sguardo torvo da parte del
mio angelo custode. La maggiore preoccupazione da parte del
governo Taleban è quella di rendere la capitale, una città
simbolo della trasformazione in atto nel Paese. Per questo le
leggi islamiche qui vengono rese operative senza alcuna deroga, a
differenza di quanto accade nelle campagne. Ufficialmente questa politica non ha trovato alcuna
conferma da parte del governo, ma sono sempre più le voci che la
avvalorano.
PIERGIORGIO PESCALI -
DI RITORNO DA KABUL
Il
personale afghano e i bimbi a rischio
"Noi abbiamo i nostri principi e intendiamo rispettarli - mi ha
detto a Kandahar, il Mullah Mohammad Omar Akund, amir ul
mumineen (Supremo Leader della Fede) e massima personalità
Taleban - Se questo è un peccato agli occhi del mondo, ebbene,
siamo pronti a subirne le conseguenze qui in Terra per
raccogliere i frutti nel Paradiso di Allah. Voi occidentali ci
considerate pazzi, lo sappiamo bene, ma noi seguiamo solo ciò che
dice il Corano. Noi consideriamo decadente il vostro sistema di
vita, eppure non interferiamo sulle vostre decisioni".
Ma il Mullah Omar vive a Kandahar, nel sud del Paese, una regione
a maggioranza Pashtun, la stessa etnia da cui provengono gli
studenti islamici che oggi governano l'Afghanistan e dove
effettivamente la popolazione ha ritrovato un certo benessere
sociale ed economico, ricambiando i Talebani con un appoggio
incondizionato.
Kabul, come altre città del nord ovest afghano, abitata da decine
di diversi gruppi etnici, non risente affatto di questo
benessere. La capitale, ancora semidistrutta dalla furiosa guerra
civile terminata solo nel 1996, quando i Talebani conquistarono
il potere al termine di una vertiginosa ascesa militare, vive di
pura sussistenza. Le fabbriche costruite dai sovietici sono state
rase al suolo e i pochi macchinari salvati dalla furia del capo
mujaheddin Gulbuddin Hekmatyar, trasportati in Pakistan. Chi non
ha un lavoro nella struttura pubblica, l'unica che offre una pur
grama garanzia di sopravvivenza, deve arrangiarsi come può. I più
fortunati posseggono una tessera per qualche forma di
nan, il pane locale, distribuito due volte alla
settimana.L'oppressione delle donne e la fame
La fedeltà riposta nei Taleban da parte della popolazione di
etnia Pashtun, la più numerosa del Paese, ha indotto questi ad
iniziare un processo di ricambio etnico a Kabul. Gli indizi di
questa nuova azione, appena iniziata e non ancora visibile su
scala generale, si possono osservare nei quartieri residenziali:
gli Hazara, i Tajiki, gli Uzbeki, gli Iraniani lasciano piano
piano il posto a nuovi arrivati Pashtun provenienti dalle regioni
meridionali. "I trasferimenti forzati sono iniziati qualche mese
fa", conferma un rappresentante di una Ong occidentale, "Noi ce
ne siamo accorti perché alle famiglie veniva notificato l'avviso
di trasferimento con una settimana di preavviso, con il pretesto
di riunire i gruppi etnici afgani nelle loro zone di provenienza.
Poco dopo al posto dei vecchi residenti trovavamo nuove famiglie
Pashtun".Trasferimenti etnici e campagne diverse
Se è vero che la situazione a Kabul è tragica, non altrettanto si
può dire nel sud del Paese dove i Taleban hanno, dal loro punto
di vista, riportato la pace e la tradizione. In queste lande,
diversamente dalle realtà urbane interessate ad un movimento di
riforma, sono stati i sovietici che hanno imposto con la forza
alle donne l'emancipazione: lo scoprirsi il volto, il lavoro, il
diritto all'educazione. Tutte conquiste che, appena crollato il
"sistema socialista" - già dilaniato al suo interno da una feroce
guerra civile tra i settori del partito comunista stesso con la
quale si avvia l'intervento sovietico e poi la guerra tra potere
centrale e mujaheddin -, la popolazione, donne per prime, non
hanno esitato a "dimenticare", rifugiandosi di nuovo nei
burqa e rintanandosi nelle loro case. Qui i Talebani non
hanno dovuto imporre granché, anzi. Le scuole, sovvenzionate con
un programma dello Swedish Commettee for Afghanistan, funzionano
anche per la componente femminile della popolazione e il sistema
agricolo, con i canali d'irrigazione creati dall'Urss, produce
cibo in quantità sufficiente per sfamare la popolazione. Il
mantenimento della struttura idraulica, garantito dall'assistenza
tecnica pakistana e saudita, permette l'adeguata irrigazione
delle colture cerealicole. Il problema è che il sistema di
canalizzazione, concepito sulla base di una produzione
collettivistica secondo l'idea dei kolchoz, oggi deve sostenere
un'ossatura privata che ha spezzettato in una miriade di
fazzoletti di terra l'intera superficie coltivata, dilapidando
forza lavoro, attrezzature agricole e la preziosissima acqua.
Tutto questo impedisce uno sfruttamento più redditizio del
territorio che potrebbe alleviare, almeno in parte, la fame
oramai cronica che affligge la popolazione afghana.