Borsa,
il virus
di silicio
Crolla il Nasdaq e con esso la fiducia negli effetti
positivi della "rivoluzione" microelettronica e
dell'informazione. Ma può una giornata nera in borsa, una
settimana critica o anche un anno interno di perdite dei titoli
della cosiddetta new economy cancellare beni, servizi e
artefatti che sono oramai divenuti parte integrante della nostra
vita quotidiana? La domanda non è peregrina, perché riporta al
nesso esistente tra economia reale e titoli finanziari. In una
parola: l'andamento del Nasdaq è un buon termometro del
cambiamento tecnologico?
Ogni fase dello sviluppo economico è stato accompagnato
da una tecnologia. Lo sostiene in un recente saggio
l'economista Chris Freeman, che considera il computer
il responsabile del sali e scendi delle borse
DANIELE ARCHIBUGI
Per rispondere, è opportuno leggere un recente saggio di Chris
Freeman intitolato Un duro atterraggio per la New
Economy?
Scritto nel momento di massima euforia dei mercati per le imprese
innovatrici, Freeman notava la fragilità dell'economia americana
a causa del labile collegamento tra borsa e attività produttive,
e addirittura si spingeva a predire un'imminente crisi.
Concludeva la sua analisi con le parole: "Allacciate le cinture
di sicurezza". Non bisogna confondere Freeman con uno dei soliti
menagrami di fine millennio: lui è un economista schumpeteriano,
fondatore della scuola del Sussex e profeta del cambiamento
tecnologico; insomma non è né uno scettico né un pessimista.
Influenzato da Marx, è comunque ben lontano da quei marxisti che
tutte le mattine predicono il crollo del capitalismo. Ma,
soprattutto, è lo studioso che prima d'ogni altro ha rilevato che
le moderne economie capitaliste stavano entrando in una nuova
fase di sviluppo nella quale le tecnologie dell'informazione
basate sulla micro-elettronica (Icts) erano destinate a svolgere
un ruolo decisivo.
Il ragionamento di Freeman è assai semplice: ogni fase dello
sviluppo capitalistico è guidata da determinate tecnologie, che a
loro volta danno forma ad una particolare organizzazione
economica. Il telaio e il motore a vapore hanno creato le
industrie manifatturiere, l'ingegneria meccanica le ferrovie, le
scoperte scientifiche chimiche ed elettriche hanno creato nuovi
settori industriali. La storia si ripete oggi con la
microelettronica.
Nel corso degli anni, Freeman ha anche assolto il compito, sempre
garbatamente, di sostenere che altre tecnologie, per quanto
importanti, non avevano la stessa penetrazione nel tessuto
economico. E così, ha sostenuto già negli anni Settanta, molto
prima della catastrofe di Chernobyl, che l'energia nucleare non
sarebbe stata il motore dello sviluppo perché le conoscenze su
cui si basava non erano diffuse nell'economia, perché non
induceva lo sviluppo di capacità tecniche da parte degli
utilizzatori e, infine, perché dovevano fronteggiare una forte
opposizione sociale. Ma anche nel valutare l'impatto economico
delle biotecnologie, Freeman ha frenato gli entusiasmi di coloro
che, impressionati da film come Blade Runners,
ritenevano che esse avrebbero cambiato ogni aspetto della nostra
vita.
Le tecnologie dell'informazione basate sulla microelettronca,
invece, sono quelle che si diffondono più agevolmente nella vita
economica, che non provocano resistenze sociali (ci sono
movimenti contro l'energia nucleare e contro le biotecnologie, ma
non contro la posta elettronica), e che, possedendo un raggio
d'applicazioni assai ampio, impongono agli utilizzatori
d'acquisire competenze specifiche e di diventare potenziali
manipolatori e innovatori. Gli economisti ortodossi hanno per
anni ignorato queste analisi, fino a quando si sono accorti che i
loro modelli non avevano più alcuna attinenza con fatti reali. E
con una notevole faccia tosta, si sono dedicati al panegirico
della cosiddetta New Economy.
Non è sorprendente che i titoli tecnologici (o più esattamente,
quelli connessi a imprese attive in prodotti tecnologicamente
innovativi) siano più soggetti a valutazioni oscillanti, specie
in un mercato, come quello borsistico, che risente più di ogni
altro di fattori irrazionali e emotivi. La caratteristica delle
imprese innovative è, infatti, quella di operare in campi in cui
l'incertezza è maggiore. C'è in primo luogo un'incertezza
tecnologica (riusciranno i ricercatori e gli ingegneri a trovare
dei dispositivi che funzionano?). Solo alcuni progetti innovativi
superano questo stadio, e in quel momento subentra una seconda
incertezza, che riguarda la capacità di tramutare il dispositivo
trovato in un prodotto vendibile sul mercato. Ed infine, arriva
la terza e ultima incertezza, quella più propriamente economica:
quale sarà l'esito che avrà il prodotto sul mercato? Quanto ampio
sarà il mercato disponibile? L'impresa innovatrice si troverà in
una situazione di monopolio o dovrà concorrere contro altri e
ugualmente agguerriti prodotti?
A rileggere un po' di storia economica s'impara sempre molto, ed
è un peccato che i profeti della New Economy non abbiano
il tempo per farlo. Già nell'Ottocento, l'andamento dei titoli
della nascente industria ferroviaria avevano andamenti molto
discontinui. Per costruire ferrovie, servivano ingenti
investimenti, e il mezzo migliore per procurarsi le risorse era
di ricorrere al mercato borsistico. Era già allora arduo stimare
quale sarebbe stato il raggio d'affari dell'industria. Più
prosaicamente, non era facile stimare quante persone avrebbero
comprato il biglietto, e a che prezzo.
L'incertezza che domina nell'industria delle tecnologie
dell'informazione è oggi ancora maggiore. Prendiamo il caso di
prodotti consolidati e in fase di sviluppo: sappiamo con una
certa precisione, ad esempio, che i telefoni cellulari passeranno
nel mondo dagli attuali 600 milioni a più di 900 milioni nel 2005
e che gli utilizzatori di Internet passeranno dai 265 milioni del
2001 ai 428 milioni del 2005, ma questo non autorizza ancora a
dire quali saranno i profitti che faranno le imprese del settore.
I tassi di diffusione di queste tecnologie sono così rapidi anche
per i prezzi sempre più bassi e per l'accesso sempre più facile.
Così come non si fanno profitti vendendo l'aria, diventa sempre
più difficile fare profitti vendendo l'accesso alle tecnologie
dell'informazione. E il mercato può il lunedì essere ottimista e
il martedì pessimista. Ma in nessuno dei due casi, viene cambiata
la prospettiva di coloro che generano, diffondono e usano queste
tecnologie.
Ancora più avvolta nell'incertezza è la situazione delle
biotecnologie, le cui applicazioni commerciali sono ancora meno
evidenti. Finora, gli investitori, soprattutto negli Stati Uniti,
hanno scommesso sul futuro, assumendosi tutti e tre i tipi
d'incertezza menzionati sopra. Le valutazioni di questi
investimenti cambiano con una rapidità assai maggiore rispetto
alle potenzialità di sfruttamento economico dei prodotti. Ecco
perché l'andamento del Nasdaq non riflette quello del cambiamento
tecnologico e viceversa.
In Giappone, il governo è corso ai ripari della borsa sostenendo
i titoli. Alla faccia del libero mercato, dovrebbero gridare i
liberisti: è mai successo che il governo abbia deciso di
ridistribuire gli utili della borsa? Negli Stati Uniti c'è
un'insistente richiesta d'interventi di politica monetaria per
contenere le perdite di Wall Street. Ma è possibile immaginare un
ruolo per la politica economica che non sia il solo sostegno
della borsa? Si deve per forza passare per stupidi a ricordare
che il governo è chiamato ad agire nell'interesse dei cittadini e
non degli azionisti?
E allora, partiamo dai bisogni che hanno i cittadini: avere
l'accesso ai servizi disponibili tramite la rete, essere in grado
di acquisire le informazioni utili e non l'enorme quantità
d'immondizia pubblicitaria che viaggia per Internet, avere gli
strumenti tecnici e culturali per immettere la propria voce nella
società globale. Se questi sono gli obiettivi, non è difficile
immaginare quali dovrebbero essere gli strumenti delle politiche
pubbliche: aumentare la formazione e l'educazione informatica,
creare reti d'accesso per la popolazione finora esclusa,
investire nei progetti di diffusione delle conoscenze. Che si
lasci al libero mercato la borsa, e si riconquistino i cittadini
all'idea che il cambiamento e l'innovazione è una parte centrale
nella vita della loro società. Forse scopriremo che non è detto
che una società tecnologicamente più consapevole non possa
generare qualche guadagno anche per la borsa.