Racak, bugia di guerra

TIZIANA BOARI

Racak, bugia di guerra
Il massacro di Racak Scontro a fuoco o strage a freddo? Su una rivista medica il rapporto degli anatomopatologi Ue: non è possibile dirlo. Come fecero invece gli Usa TIZIANA BOARI

Ricordate il cosiddetto "massacro di Racak"? La "strage" di kosovari-albanesi che nel gennaio 1999 segnò l'escalation della crisi in Kosovo, predisponendo l'opinione pubblica mondiale ad accettare la guerra contro la Federazione Jugoslava che sarebbe scoppiata due mesi dopo?
In attesa della pubblicazione del rapporto finale redatto dalla squadra di medici forensi finlandesi, incaricati allora dall'Unione europea di verificare modalità e responsabilità dell'accaduto, questo giornale, insieme al quotidiano tedesco Berliner Zeitung, aveva avuto occasione un anno fa di esaminare i protocolli di autopsia delle vittime, concludendo che non vi erano assolutamente elementi per concludere che quella di Racak fu un'esecuzione sommaria contro civili inermi (il manifesto, 15 aprile 2000). Tesi che fu invece alla base delle dichiarazioni, affrettate e strumentali, di William Walker, capo della missione di verifica dell'Osce, un generale statunitense assurto a ranghi diplomatici grazie ai "buoni servigi" resi al dipartimento di Stato e alla Cia in Salvador. Egli accusò senza mezzi termini i reparti speciali della polizia del Ministero dell'Interno (Mup) e le forze armate jugoslave (Vj), il giorno stesso della scoperta dei cadaveri delle 45 vittime, il 16 gennaio 1999.
Il giorno prima del ritrovamento dei corpi a Racak si era svolta una vera e propria battaglia tra truppe serbe e guerriglieri dell'Uck. Il villaggio infatti si presentava vuoto dopo la fuga dei suoi abitanti, allarmati dall'arrivo dei guerriglieri che avevano ormai sotto controllo la zona e avevano ucciso giorni prima quattro poliziotti serbi.
Novità importanti e finalmente ufficiali emergono oggi contro la tesi di Walker. Secondo le anticipazioni di un articolo di imminente pubblicazione sulla rivista scientifica "Forensic Science International" (www.elsevier.nl), a firma dei tre medici forensi finlandesi Juha Raunio, Antti Penttilä e Kaisa Lalu, membri dell'equipe di esperti Ue guidata dalla dottoressa Helena Ranta, il rapporto finale sul caso di Racak non giunge affatto a concludere che si trattò di un massacro di civili disarmati ad opera delle forze di sicurezza serbe. Le indagini, ricordiamo, furono condotte inizialmente da una squadra di medici legali jugoslavi e bielorussi, ai quali si aggiunse in un secondo tempo l'equipe finlandese, giungendo a conclusioni analoghe, mai trapelate all'esterno fino all'aprile dello scorso anno.
L'équipe di esperti dunque era stata incaricata dall'Ue di rispondere a domande piuttosto complesse riguardanti identità delle vittime: causa, modalità e ora del loro decesso, circostanze della morte ed eventuali mutilazioni effettuate sui cadaveri. Ora nel rapporto finale si conclude addirittura che l'équipe "non è stata in grado di stabilire che le vittime fossero originarie di Racak", né di ricostruire "la loro posizione sul luogo dell'incidente" e gli eventi intercorsi fino all'esecuzione delle autopsie. Ma i tre esperti finlandesi non si fermano qui e spiegano che sui cadaveri "non esistono tracce di mutilazioni eseguite successivamente" per mano umana. Il rapporto inoltre indica con meticolosità che sui 40 cadaveri esaminati (5 furono sottratti alle autopsie) sono state ritrovate da una a 20 ferite da arma da fuoco. Soltanto in un caso sono state rilevate tracce di polvere da sparo così da far sospettare un'esecuzione avvenuta.
Le conclusioni degli esperti dunque confermano quanto questo giornale scrisse un anno fa e aprono uno spiraglio nuovo nelle trattative, ormai giunte ad un irrigidimento preoccupante, tra il governo di Belgrado e il Tribunale Internazionale dell'Aja che continua a sostenere la tesi del massacro di civili inermi, ponendo la strage di Racak tra i primi capi di imputazione nell'incriminazione contro l'ex presidente jugoslavo Milosevic e l'allora dirigenza belgradese.
Un'imputazione che potrebbe dissolversi come neve al sole nel momento in cui non risultasse chiara, come sembra alla luce di questi nuovi elementi, neanche l'origine delle vittime. Vittime alle quali però il Tribunale dell'Aja è riuscito ad abbinare nomi elencati uno per uno nell'imputazione ufficiale, emessa nel maggio del 1999 dalla canadese Louise Arbour, predecessore dell'attuale procuratore generale del Tpi, Carla Del Ponte. E' lecito chiedersi con quali criteri sia stata eseguita a suo tempo l'identificazione delle vittime. Del Ponte insiste nel confermare la presenza di "prove sufficienti" a indicare un massacro a sangue freddo.
Eppure, come rivelarono questo giornale e il Berliner Zeitung un anno fa, qualcosa non quadra neanche nei numeri: l'Aja elenca 45 nomi, le autopsie effettuate tuttavia sono soltanto 40, 13 di questi nomi risultano scomparsi dal "cimitero dei martiri", mentre 12 nuovi nomi sono emersi dal nulla tra le tombe. In questo contesto è eloquente il veto politico posto alla pubblicazione del rapporto in questione, atteso già dal febbraio-marzo del 1999, nel pieno dei negoziati di Rambouillet. Il capo dell'équipe, Helena Ranta, espresse il 17 marzo, nel corso di una conferenza stampa a Pristina, le sue "opinoni personali" sull'episodio di Racak, ma la presidenza tedesca dell'Ue, che gestì in quell'occasione l'evento, intitolò il comunicato stampa distribuito ai giornalisti "Rapporto dell'Unione Europea su Racak", dando adito alla convinzione che si trattasse di conclusioni finali. Le dichiarazioni della Ranta lasciarono scontenti tutti perché troppo prudenti, piene di mezze verità e contraddizioni, ma furono interpretate strumentalmente per aprire la strada all'intervento militare, con la precipitosa fuga in Macedonia dei verificatori dell'Osce il 20 marzo e l'inizio dei bombardamenti qualche giorno più tardi.
Sulla pessima gestione della crisi del Kosovo si è espressa in modo critico, a quanto riporta il quotidiano tedesco Berliner Zeitung, anche l'assemblea parlamentare della Nato che, in occasione della sua ultima riunione, ha licenziato un rapporto generale dal titolo "Le conseguenze del conflitto in Kosovo", dove viene menzionato "il presunto e fino ad oggi non completamente chiarito massacro di Racak". Una definizione quanto mai spiazzante anche per l'allora capo della missone di verifica dell'Osce che puntò per primo e senza esitazione il dito contro le truppe serbe, definendo quello che era accaduto "un massacro contro civili inermi", "un crimine contro l'umanità", quando - come ricorda il generale tedesco Heinz Loquai, già consigliere militare della delegazione tedesca presso l'Osce, in una recente intervista a LiMes (n.5/2000, p.202) - "in quel momento, nessuno era in grado di dire chi avesse fatto cosa".
Lascia dunque particolarmente allibiti leggere le affermazioni rilasciate da Walker, grazie al cielo ormai in pensione, sulle pagine del quotidiano belgradese Blic del 23 gennaio di questo anno: oltre a dichiararsi "confuso" dal rapporto finale dell'équipe finlandese, Walker afferma di non aver mai trovato, tra coloro che si recarono con lui quel 16 gennaio sul luogo del presunto massacro, qualcuno che non fosse giunto alle sue stesse conclusioni. Quali erano queste conclusioni? Walker insiste: "La polizia speciale e le forze armate di Milosevic erano entrate nel villaggio un giorno prima, dopo averlo bombardato con l'artiglieria, e avevano preso tutti gli uomini e i ragazzi. Li portarono via disarmati e la mattina dopo erano morti". Giuridicamente molto pesante anche l'affermazione che il diplomatico americano rende a Blic a questo punto dell'intervista: "Se questi uomini e ragazzi fossero membri dell'Uck o abitanti del villaggio non ha importanza. Chiunque essi fossero, portarli via disarmati e assassinarli è un crimine di guerra". Il che significa mettere sullo stesso piano giuridico un'azione antiterroristica contro guerriglieri armati e una rappresaglia contro civili inermi.
William Walker si dichiara oggi stupito di "questi nuovi rapporti che contraddicono lo scenario supposto". Non furono certo presentate come "supposizioni" le accuse contro Belgrado che l'ambasciatore americano urlò al mondo quel 16 gennaio di due anni fa. E come può oggi esprimere il desiderio di recarsi a Belgrado su invito del presidente Kostunica lo stesso uomo che il 2 novembre del 1999 tornò sul "luogo del delitto" per ricevere la cittadinanza onoraria kosovara, mentre i suoi amici dell'Uck stavano ammazzando serbi, rom e albanesi moderati a go go? In un documentario della Bbc trasmesso da Canale 5 l'anno scorso, il generale tedesco Klaus Naumann afferma che Walker di fronte al Consiglio Nordatlantico attribuì prevalentemente all'Uck le violazioni della tregua in atto. Walker, intervistato, nello sforzo forse di apparire politicamente corretto, afferma di non ricordare, di aver riportato violazioni da entrambe le parti e conclude: "Certo era più facile accusare il governo" (di Belgrado, ndr).
Su Racak il diplomatico statunitense arriva persino a smentire palesemente di avere cercato istruzioni da Washington, un'azione fortemente scorretta da parte di un funzionario internazionale chiamato in quel contesto a rappresentare ufficialmente un'organizzazione composta da 54 stati, l'Osce. Richard Holbrooke, interrogato, afferma : "William Walker, capo della missione di verifica dell'Osce, mi chiamò sul telefono cellulare da Racak". Stacco. Domanda a Walker: "Non si ricorda di aver chiamato Washington?" Walker nega, scuotendo la testa. Stacco. E' la volta di Wesley Clark che afferma: "Ho ricevuto una chiamata da Bill Walker. Mi ha parlato di un massacro. Mi ha detto: "Sono qui, posso vedere i cadaveri." Stacco. Domanda a Walker: "Lei non ha conferito con il generale Clark o con altri ufficiali ?" Walker nega, scuotendo la testa. Fine della proiezione.
Attendiamo cosa farà ora l'Ue che, alla luce dei risultati del rapporto finale dei medici finlandesi, ha già annunciato di voler prendere prossimamente misure adeguate. Un centinaio di osservatori Ue sono già stati inviati nella valle di Presevo, dove sembra riproporsi lo scenario che due anni fa portò alla guerra.

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