Clinton in Vietnam. Sul luogo del delitto

PIERGIORGIO PESCALI

Clinton in Vietnam. Sul luogo del delitto
Prima visita ad Hanoi di un presidente Usa dopo la guerra d'aggressione. Grazie a un trattato commerciale
PIERGIORGIO PESCALI


Il viaggio di Clinton in Asia, l'ultimo della sua amministrazione, oltre a sancire una realtà che noi italiani continuiamo a rifiutare, cioè che il futuro fulcro strategico, politico e economico non sarà nelle mani dell'Europa, bensì in quelle di popoli che ci ostiniamo a considerare "arretrati e primitivi", assume particolare importanza per la destinazione finale scelta. Il commiato internazionale non avverrà in un paese alleato come il Giappone o la Corea del Sud e neppure all'interno di confini di una potenza economica emergente, come la Cina o l'India. No, Clinton ha scelto di dire addio alle scene della politica mondiale nel paese che più di tutti ha umiliato l'orgoglio nazionale statunitense: il Vietnam.
Ci sono diversi motivi per cui il principale attore della maggiore potenza del globo chiude il sipario tra la gente che tanto ha contribuito a far crollare il prestigio degli Usa nel mondo. Clinton ha iniziato la sua carriera politica nei campus universitari, protestando contro l'intervento militare nel sudest asiatico. Ed è sempre Clinton che, nel 1995, ha deciso di togliere il ventennale embargo che affliggeva l'economia vietnamita, applicato da Nixon per ripicca all'umiliazione subita. Infine sotto la sua amministrazione, proprio nel luglio di quest'anno Hanoi ha concluso un sofferto quanto delicato negoziato che aprirà le porte dell'ambìto mercato vietnamita alle compagnie a stelle e strisce. Ciò che Washington non è riuscita a fare militarmente 25 anni fa, cioè l'accerchiamento strategico della Cina, lo sta compiendo economicamente oggi. Non è un caso che l'accordo commerciale con gli Usa sia stato firmato dal ministro del commercio vietnamita Vu Khoan, uomo di fiducia di Pechino che nel dicembre 1999 ha concluso i lunghi negoziati sui confini terrestri tra Vietnam e Cina.
Ma com'è il Vietnam che Clinton, primo presidente Usa a mettere piede sul suo suolo dopo la liberazione, andrà a trovare?
Sicuramente un paese migliore di quello che i suoi predecessori, da Kennedy a Nixon passando per Lyndon Johnson, hanno contribuito a lasciare. Quando alle 10.45 del 30 aprile 1975 il carro armato T-54 numero 843 abbattè l'inferriata del palazzo presidenziale ponendo la parola fine alla guerra, la nuova dirigenza ereditò una delle nazioni più devastate mai apparse su questa terra. E quando parliamo di devastazione, non ci riferiamo solo alla distruzione economica e politica perpetrata da decenni di dissolutezza dei governanti di Saigon con il beneplacito di Washington. La distruzione a cui ci riferiamo è quella ben più grave del degrado morale, sociale, psicologico cui i vietnamiti (tutti indistintamente, del nord e del sud), sono stati oggetto sin dalla colonizzazione francese. I problemi del Vietnam attuale hanno radici profonde, che trovano spazio negli innumerevoli sistematici tentativi di scalfire la cultura e la tradizione indigena operati dai primi colonizzatori e da quel Congresso di Ginevra del 1954 che, disatteso dagli Usa, decretò la temporanea (rivelatasi poi definitiva) divisione del Vietnam in due parti separate dal 17 parallelo. Alla dominazione europea, nelle regioni meridionali, si sostituì quella americana. Ma, dato che gli Usa dovevano pur sempre legittimare democraticamente il governo da loro sostenuto, organizzarono le elezioni nell'ottobre 1955: vinse, naturalmente, il candidato appoggiato da Washington, Ngo Dinh Diem con il... 134% dei voti (già, perché nella foga democratica, si fecero male i conti e su 450.000 elettori, Diem ebbe 605.025 preferenze). Un precedente imbarazzante che oggi, per uno strano scherzo del destino, viene riportato in termini attuali con il grande show di varietà politica presentato da Bush e Gore.

Poi venne la Baia dei Porci con la perdita definitiva di Cuba, la minaccia del "pericolo rosso" alle porte negli Usa, la rispolverata alla "teoria del domino" enunciata dapprima da Eisenhower e ripresa da Kennedy. Si guardava con preoccupazione l'alleanza tra Sukarno e i comunisti in Indonesia, la salita al potere dei socialisti in Birmania e in India, la guerriglia nelle Filippine, Thailandia e Malesia: il Vietnam divenne il perno geopolitico da cui si poteva controbilanciare un'avanzata dei rossi. In nome della teoria del domino, che in seguito i suoi stessi più accaniti sostenitori, con Robert McNamara in testa, ammisero trattarsi di ipotesi infondata, si giustificarono i massacri più efferati: l'uccisione di più di 500.000 comunisti (o presunti tali) in Indonesia, la successiva invasione di Timor Est dieci anni dopo (e per i successivi 25 anni i disperati appelli del popolo timorese furono ignorati dall'Occidente democratico), le dittature militari in Corea del Sud, la soppressione delle libertà civili in Malesia e Thailandia, la durissima repressione dell'opposizione nelle Filippine.
Ci si inventò anche un incidente, quello del Tonchino, per iniziare l'escalation di una guerra che in America veniva chiamata Guerra del Vietnam, in Francia Seconda Guerra d'Indocina e in Vietnam Guerra Americana. Nemmeno sul nome c'era un accordo tra le parti, figuriamoci trovare uno spiraglio di dialogo.
Washington trattò il Vietnam come campo di battaglia e nulla più. Oggi, tutti i principali protagonisti della guerra, dal generale Westmoreland a McNamara, ammettono l'errore: non si era preparati ad affrontare una contrapposizione sociale, culturale, religiosa e, soprattutto, la determinazione tutta asiatica di sopportare qualunque sacrificio pur di mantenere l'indipendenza della propria terra. "Il nemico era pronto a pagare un prezzo infinitamente maggiore di quello che noi caucasici avremmo pensato e saremmo stati disposti a pagare" disse Westmoreland nel 1996. Il Giappone e la Corea non avevano insegnato nulla alla dirigenza statunitense. Persino dalla guerra psicologica, cavallo di battaglia del Pentagono, uscirono sconfitti: gli Usa insistettero perché i guerriglieri sudvietnamiti non venissero identificati con i leggendari Viet Minh e coniarono un termine secondo loro più appropriato: Viet Cong, comunisti Viet, col risultato che il vocabolo divenne, in breve tempo, sinonimo di eroismo, coraggio, determinazione. E alla fine i piccoli e minuti Charlie ebbero la meglio sugli yankee. Per giustificare l'indecoroso ritiro americano, è stato detto che i militari "combatterono con una mano legata dietro la schiena" per dirla con il generale Westmoreland. Beh, bisogna vederlo, questo Vietnam, ancora oggi, a 25 anni di distanza, ferito e claudicante. Bisogna vedere quelle lunghe cicatrici nel mezzo delle foreste causate da 71 milioni di litri di Agent Orange spruzzati dall'aviazione, quelle migliaia di bambini deformati dalla diossina del defoliante, le centinaia di migliaia di contadini colpiti dal cancro. E poi bisogna vederle quelle migliaia di crateri che bucherellano il terreno come una pelle butterata dal vaiolo, i villaggi che riciclano le carcasse dei carri armati, gli elmetti Us Army, le bombe, i missili. I militari hanno avuto le mani legate? Chissà allora cosa sarebbe accaduto se avessero potuto dar fondo ai loro piani d'invasione del Nord Vietnam, con il conseguente scontro diretto con la Cina. Lo stesso McNamara ce ne dà l'idea: "Almeno per due volte ho sentito i generali considerare la possibilità di usare armi nucleari in Vietnam nel caso di invasione del Nord."


Il nucleare non è stato utilizzato, ma la nazione è uscita stremata come nessun'altra dalla guerra. E la ricostruzione è dovuta iniziare da zero.
E' anche per questo che Clinton troverà un Vietnam economicamente in grande difficoltà: se si guardano alle cifre, i 333 dollari di reddito pro capite pongono il vietnamita agli ultimi posti della classifica mondiale. Ma le statistiche non dicono che ogni cittadino ha diritto ad alimenti forniti dallo stato, che il 90% della popolazione sa leggere e scrivere (grazie anche al sistema di translitterazione latina quoc ngu ideato dai missionari cattolici francesi), che l'assistenza sanitaria è gratuita. Clinton cercherà di convincere i dirigenti di Hanoi ad adottare le linee guida del mercato libero. Ma su quali presupposti? In Asia gli interventi della Banca Mondiale e del Fmi sono stati devastanti per le economie già avvezze al mercato capitalista come quelle thailandese, sud coreana, indonesiana. La crisi asiatica, dal cui burrone solo oggi alcuni paesi stanno a fatica trovando la via d'uscita, non ha colpito le economie non ancora interamente integrate al mercato globale, come quella cinese, che sta marciando ancora a ritmi di crescita attorno al 5-6%. La poca liberalizzazione sino ad oggi introdotta nel Vietnam con la doi moi, ha provocato lacerazioni sociali visibili a chiunque: droga, prostituzione, disoccupazione, impoverimento delle masse. Erano malattie quasi debellate dal nuovo corso socialista post '75. Oggi sono ricomparse e parallelamente a loro cresce la corruzione dei funzionari di partito, molti dei quali si sono buttati a capofitto nei profitti delle imprese private.
Sembra invece appurato che non verrà approfondito il tema dei diritti umani, di cui il Vietnam non rappresenta certo l'esempio migliore per il loro rispetto, anche se le organizzazioni umanitarie hanno concesso un sensibile miglioramento da una decina d'anni a questa parte con la liberazione e il reinserimento sociale di migliaia di prigionieri politici. Ma il passato in Asia ha un suo valore e una memoria storica molto prolungata; difficilmente si potranno accettare lezioni dal presidente di un paese per troppo tempo artefice e connivente di situazioni poco rispettose della cultura altrui, qui e altrove.

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