I combattenti disarmati della pace
Come si deve comportare la comunità internazionale di fronte al
continuo ripetersi di guerre civili, genocidi, pulizie etniche e
altre atrocità? Quando assistiamo a episodi sconvolgenti in
qualche parte del mondo l'opinione pubblica spera che qualcuno
intervenga a favore delle vittime e degli oppressi. Ma questa
speranza genera due problemi assai più complessi: qual è
l'autorità che può intervenire per porre fine alle atrocità? E
chi sono gli oppressi che meritano di essere protetti?
L'esperienza della cooperazione non governativa in un
libro di Giulio Marcon edito da Asterios
DANIELE ARCHIBUGI
In un decennio di conflitti nella ex-Jugoslavia, i volontari che
quotidianamente hanno alleviato le sofferenze della popolazione
balcaniche si sono posto quotidianamente questi problemi. Oggi
l'itinerario intellettuale di questo esercito autenticamente di
pace è ripercorso nel bellissimo saggio di Giulio Marcon
(Dopo il Kosovo. Le guerre nei Balcani e la costruzione
della pace Asterios, pp. 243, L. . 39.000). Come presidente del
Consorzio Italiano di Solidarietà, la principale organizzazione
non governativa italiana impegnata nei Balcani, e testimone
oculare per tutti gli anni Novanta di quanto accaduto nella
ex-Jugoslavia, Marcon è la persona più indicata a esporre la
prospettiva teorica e pratica del movimento per la pace. E a
rispondere, una volta per tutte, alla insolente domanda ("dove
stanno i pacifisti?") posta da quei saccenti commentatori privi
di qualunque conoscenza diretta delle situazioni di cui parlano.
Dove stavano i pacifisti è facile saperlo leggendo questo libro:
a Mostar, a Sarajevo, a Tuzla e in qualunque campo dove
infuriavano le guerre, i massacri, le vendette private. Erano lì
dove si riscontravano emergenze alimentari e sanitarie. Molti di
questi volontari sono rimasti lì per sempre, sepolti insieme alle
vittime che avrebbero voluto, spesso senza riuscirci, proteggere.
Come si spiega che i pacifisti siano stati allo stesso tempo
coloro che più si sono impegnati per difendere le vittime della
guerra e coloro che più si sono opposti all'uso della forza
militare occidentale?
La risposta è assai semplice: perché interventi militari
indiscriminati non riescono a tutelare le popolazioni civili. Si
rischia al contrario di aggiungere nuove vittime a quelle già
esistenti. Se ne trova ulteriore conferma nell'ultimo conflitto a
cui abbiamo assistito, quello del Kosovo: la popolazione civile
non è stata protetta dai bombardamenti aerei, al contrario. Alle
vittime del Kosovo si sono aggiunte quelle di Belgrado, di Novi
Sad e di tante altre città.
Purtroppo, per imperizia o per tornaconto, l'unica forma di
intervento "umanitario" che gli stati occidentali sanno svolgere
sono i bombardamenti aerei. Pur di avere via libera, gli stati
occidentali hanno rappresentato in modo caricaturale la
situazione, raffigurando una parte come carnefici (nel caso
specifico, i serbi) e l'altra come le vittime (nel caso
specifico, i kosovari). Distribuite le parti come in un copione
hollywoodiano, la scelta politica diventava facile e accessibile
per l'opinione pubblica, anche grazie a compiacenti mezzi di
comunicazione di massa: infliggere il maggior danno possibile ai
"cattivi" del momento.
Quante volte, nella sola ex-Jugoslavia, abbiamo assistito a
questa distribuzione cinematografica delle parti? Ma se si vuole
dedurre qualche lezione dalla storia, dopo un decennio
bisognerebbe finalmente ammettere che questo modo di analizzare
gli eventi e di intervenire non assicura né la pace né tantomeno
la protezione dei più deboli e delle popolazioni civili.
La verità che emerge dal saggio di Marcon è ben diversa: esistono
certamente gruppi armati fuori controllo, spesso (come nel caso
della Serbia di Milosevic) emanazione diretta o indiretta del
governo. Ma i partiti armati e oltranzisti nascono come
minoranze, e riescono ad aumentare il proprio peso quando viene a
cadere la convivenza civile. Le bande armate rivali diventano
tacitamente alleate. Raramente si combattono tra loro, preferendo
scatenare la propria violenza contro l'inerme popolazione civile,
che a seguito delle vessazioni subite non può far altro che
cercare protezione in un'altra fazione.
Non si può dare la colpa dei conflitti balcanici e delle guerre
civili su basi etniche alla comunità internazionale, ma si può
osservare con Marcon che quest'ultima, pur pretendendo di
svolgere una funzione arbitrale, ha perso una occasione dopo
l'altra per arginare il conflitto. Quando, dopo attese
ingiustificabili, gli stati occidentali sono intervenuti
ingentemente, lo hanno fatto a sostegno di una parte armata,
l'Uck. E, pur di sconfiggere Milosevic, hanno seminato terrore e
morte tra popolazioni civili che non erano responsabili delle
atrocità commesse. Oggi in Kosovo non regna la pace, al
contrario: è solo cambiata l'etnia delle vittime.
Le politiche per la pacificazione sostenute da Marcon sono così
opposte a quelle suggerite dalle diplomazie; per evitare il
divampare dei conflitti occorre in primo luogo rafforzare il peso
degli individui nelle scelte politiche, ricercando faticosamente
di organizzare quella "maggioranza silenziosa" che non vorrebbe
doversi schierare con uno dei belligeranti. Lì dove queste
politiche sono state applicate coerentemente, come nel caso della
città di Tuzla, è stata arginata la follia della guerra
fratricida.
Se le ingenti risorse destinate dai governi agli armamenti e ai
bombardamenti fossero state utilizzate per rafforzare la società
civile, se fosse stata offerta a quei popoli una prospettiva di
integrazione economica e sociale nell'Europa degli stati
"illuminati", si sarebbe potuto evitare che così tanto sangue
macchiasse le colline dei Balcani? Per quanto non si possono
coltivare certezze, la domanda non è priva di senso.