Jazz e poesia,
i quarantuno
colpi di Baraka
Bang ! Bang ! Bang ! Bang ! ...": con la mano puntata a mo' di
pistola verso il pubblico, Amiri Baraka sta interpretando un
testo che è una sorta di ritorsione in versi nei confronti del
sindaco Giuliani e dei metodi polizieschi e sbrigativi che ha
reso tristemente popolari. Fra le tante sevizie che il testo
(tutto giocato sul numero 41 con allusione al numero di colpi
sparati dai poliziotti razzisti contro l'africano Diallo a New
York, in uno dei più famosi episodi d'intolleranza accaduti negli
ultimi tempi) immagina di riservargli, c'è l'invito a fargli
quello "che il popolo fece a Roma al duce": il luogo è sbagliato
ma il concetto è chiaro. Poema un po' greve, ma siamo pur sempre
nell'ambito di quelle licenze che il genere dell'invettiva
consente. In contrasto con la sua massiccia statura di
protagonista della cultura neroamericana degli ultimi
quarant'anni, Amiri Baraka è un omettino minuto, con barba e
capelli bianchi, che, curvo e un po' malcerto sulle gambe, non
porta particolarmente bene i suoi sessantasei anni, ma che nella
parola ha mantenuto una bella carica.
Al festival di Saalfelden
l'autore di "Blues People"
si è esibito accompagnato
dal quartetto di Hugh Ragin
con David Murray al sax.
Panoramica di qualità
dal New Electric Quintet
di James Carter
con Jamaaladen Tacuma
a Diamanda Galas, Arto Lindsay, Richard Galliano e il pianista
cubano Chuco Valdes che hanno movimentato l'edizione n.22
MARCELLO LORRAI -
SAALFELDEN (Austria)
In un reading in una sala, impreziosito dal commento al sax
tenore e al clarinetto basso di David Murray (con cui aveva
inciso già una ventina d'anni fa), nelle sue poesie si ritrovano
parole cadute largamente in disuso come "rivoluzione" e
"imperialismo", e un sano sarcasmo sulla "democrazia" del suo
paese; ma il suo modo di leggerle, il suo approccio, certe
ingenuità, più che all'intellettuale agitatore e al militante
politico fanno pensare al poeta beat: uno stadio che del resto ha
attraversato in pieno prima di impegnarsi nelle lotte degli anni
sessanta. E un vecchio poeta beat eccentrico Amiri Baraka appare
anche sul palco principale del jazz festival di Saalfelden,
quando con un cappelluccio di paglia sulla testa lancia i suoi
strali contro Giuliani o recita un poema dedicato a Sun Ra. I
testi non sono forse pregevolissimi, però il connubio di jazz e
di poesia dal vivo - di quel tipo di poesia e di quel modo di
porgere così connotato - conserva il suo fascino e fa il suo
effetto.
Certo anche perché intorno a sé l'autore del cruciale Blues
People, pubblicato quando ancora si firmava col vero nome,
Leroi Jones, ha un gruppo di prim'ordine, il quartetto di uno dei
migliori trombettisti del jazz di oggi, Hugh Ragin, con Craig
Taborn al piano, Jaribu Shahid al contrabbasso, Bruce Cox alla
batteria, e con in più come ospite David Murray alle ance. Alla
fine Amiri Baraka scende in platea a vendere la mercanzia che si
è portato dietro, e vederlo circondato e quasi soverchiato da un
capannello di giovani che si contendono fascicoli di fotocopie di
testi dattiloscritti - poesie ma anche saggi - e cd (la ristampa
dello scorso anno del mitico A Black Mass,
originariamente ellepidella Jihad, con LeRoi Jones assieme
all'Arkestra di Sun Ra), e lui che fa il prezzo alla buona, che
prende banconote e dà resti, è forse la cosa più commovente e più
significativa di un modo di essere.
Arrivata alla ventiduesima edizione, la rassegna di Saalfelden
continua a crescere nelle presenze di pubblico e nell'entità
della proposta: per intendersi, si può dire che nessuno dei pur
numerosissimi festival jazz dell'estate italiana regge il
confronto in termini di rapporto quantità/qualità condensato in
un analogo lasso di tempo (che quest'anno a Saalfelden, fra
cartellone centrale e programmi collaterali, era di quattro
giorni, di cui tre dalla mattina a notte).
La grande tradizione neroamericana era rappresentata anche da un
assortimento non usuale di personaggi di spicco di generazioni
diverse come quello costituito da Greg Osby e Oliver Lake ai sax
alti e da Bob Stewart alla tuba, in un gruppo che assicurava
anche una rivelazione come Liberty Ellman, chitarrista piuttosto
originale e raffinato nel fraseggio e nei timbri. Inoltre dal New
Electric Quintet del sassofonista James Carter, che oltre che di
Craig Taborn si avvale di tre fuoriclasse del free funk, Kelvin
Bell alla chitarra, Jamaaladeen Tacuma al basso e Calvin Weston
alla batteria, per una musica di forte impatto, caratterizzata da
brani molto estesi, in cui c'è il tempo di creare e sviluppare
atmosfere non banali. Sempre da oltre oceano, non meno festoso,
con una musica spumeggiante e grintosa, il gruppo invece tutto
bianco, quasi una piccola all stars del jazz innovativo
biancoamericano, del batterista Bobby Previte, con Ray Anderson
al trombone, Marty Ehrlich alle ance, Wayne Horvitz al piano e il
più anziano Steve Swallow al basso.
Molte poi le proposte che nella frantumazione odierna della scena
jazzistica stanno decisamente a sé. Arto Lindsay ha irrorato più
del solito lo stralunato Brasile a cui è affezionato con la sua
chitara al vetriolo (fra diverse proposte di improvvisazione
elettronica il festival ha presentato tra l'altro anche quella di
Ikue Mori, vent'anni fa sua partner, alla batteria, nei
devastanti Dna). Godibilissimo il Richard Galliano di un New
York Tango in verità diventato molto italiano: accanto a
Stefano Bollani al pianoforte e a Mark Feldman al violino, Furio
Di Castri e Roberto Gatto hanno avuto il compito non ovvio, ma
assolto brillantemente, di rimpiazzare al contrabbasso e alla
batteria due musicisti di notevole classe come gli
originariamente previsti Scott Colley e Clarence Penn.Il New
York Tango è apparso di gran gusto, con begli arrangiamenti e
magnifici colori. Quella certa mancanza di riflessione e di
autentico pathos che è caratteristica di Galliano si fa comunque
sentire, ma siamo nell'ambito di qualcosa di elegante, che non
scade mai, come a volte al fisarmonicista francese avviene, nella
banalità. Rimarchevole, e trionfale, l'esibizione di Gianluigi
Trovesi e di Gianni Coscia, che hanno portato a Saalfelden il
reperorio del loro recente album per l'Ecm, In cerca di
cibo, offrendone un'esecuzione estremamente sorvegliata,
calibratissima nell'espressione e nelle dinamiche, forse persino
più sofisticata di quella dello stesso disco: veramente
straordinaria in questa occasione la capacitàdel clarinettista e
del fisarmonicista di proporre l'evocazione di un mondo popolare
di estremo nitore e sobrietà, un distillato che è riuscito ad
evitare da una parte il rischio dell'asetticità, dall'altro
quello di indulgere al popolaresco. Esuberante e spettacolare, ma
un po' troppo magniloquente, il pianismo di Chucho Valdes, il
fondatore dell'orchestra cubana Irakere.
Da ricordare, ancora, almeno tre voci fuori dal comune. Quella di
David Moss, impegnato con il suo humour e il suo virtuosismo
irresistibili nella peraltro discutibile operazione di Uri Caine
sulle Variazioni Goldberg. Quella di Phil Minton, prepotentemente
in forma col quartetto 4 Walls. E quella di Diamanda Galas, che
in uno dei set più seguiti e apprezzati ha inanellato blues,
canzoni in greco, turco, arabo-egiziano, tedesco e italiano (una
poesia di Pasolini, già incisa su disco), e ha toccato forse il
punto più alto con una notevole, originalissima interpretazione
di Lonely Woman di Coleman. Tanto severa e attenta a
creare un rituale in scena, la cantante, quanto affabile e
spiritosa -magari anche abbordando il tema dell proprie
ossessioni intorno alla morte - nel riportare per terra il
proprio personaggio in un breve incontro con il pubblico: "Penso
che devi o non parlare o parlare molto forte. Io per esempio
grido sempre, anche quando parlo al telefono: mi viene molto
naturale".