Sulla scena del delitto

LUCIANA CASTELLINA - CINISI

Sulla scena del delitto
Cinisi, sabato sera. La proiezione de "I cento passi" nella cittadina siciliana dove la storia di Peppino Impastato è ancora ferita aperta
LUCIANA CASTELLINA - CINISI


No, non poteva essere come a Venezia, dove "I cento passi" erano stati accolti dalla standing ovation dell'intero pubblico. Stupido attendersi che qui, nell'arena a ridosso del Monte Pellegrino - l'enorme massa di pietra ai cui piedi la mafia impose la costruzione del limitrofo aereoporto - la troupe del film di Marco Tullio Giordana potesse esser salutata allo stesso modo. Perché il cinema scoperto dove si proietta in anteprima il film è a cento passi dalla casa di Peppino Impastato, dove tuttora vive la madre (che il film non verrà a vederlo, per paura di esser soprafatta dall'emozione); a cento passi da quella che fu la casa di Gaetano Badalamenti, oggi in carcere negli Stati uniti e finalmente, dopo 20 anni, rinviato a giudizio per l'omicidio del nostro compagno. E stipata nel recinto soffocato dai rami degli eucalyptus (tanti non riusciranno ad entrare) c'è una folla che a differenza del pubblico festivaliero, incolpevole perché estraneo, è fatta di cittadini di Cinisi che dal film ricevono un pugno nello stomaco. Perché non si tratta di una storia sulle trame mafiose, ma del ritratto impietoso di questa cittadina alla periferia di Palermo, dove si racconta come la mafia non siano solo le cupole ma una cultura diffusa che coinvolge tutti e che tutti, dunque, mette sotto accusa. La storia di Peppino Impastato, insomma, qui è ancora ferita aperta, conflitto nelle coscienze, e non basta a coprirlo la polvere dell'ufficialità, le targhe di riconoscenza consegnate dal sindaco al regista e persino la presenza di Miccichè, segretario regionale di Forza Italia (che però era paradossalmente più toccato di altri notabili e si capisce perchè in quel '78, quando il delitto si consumò, stava in Lotta Continua).
Alla proiezione sono venuti tutti: i compagni di Peppino e quelli di tutte le sinistre della città, commossi al punto da non riuscire ad esprimere il loro entusiasmo per questo film che disseppellisce finalmente la loro storia, perché ancora più forte è il grumo doloroso di sentimenti che quel film scoperchia, e li ammutolisce (e questa è la prova migliore della qualità del lavoro di Giordana). Ci sono anche i giovanissimi, nati dopo il 1978, che non solo applaudono a lungo, ma che, nei lunghi mesi di lavorazione, hanno generosamente collaborato col regista prestandosi a fare da comparse volontarie. E così forse hanno saputo di una vicenda che nessuno prima gli aveva raccontato, perché il Centro Impastato che Umberto Santino ha fondato e da un ventennio ha cercato di sfondare il muro del silenzio non era riuscito ad arrivare a loro. Ritmano, assieme agli ex giovani, uno slogan ormai desueto: "Peppino sei vivo e lotti assieme a noi". Quale lotta non è chiaro, ma non importa, è pur sempre una buona intenzione.
Ma nell'arena di Cinisi ci sono anche i tanti che forse allora sono stati zitti, o si sono distratti o adattati, e che solo ora forse cominciano ad interrogarsi sulla morte di quel ragazzo della loro città che aveva animato una delle prime radio libere da cui aveva osato sfidare la mafia, dolorosamente svelandone anche i riflessi ambigui e brucianti sui più gelosi rapporti familiari. (Anche questa reazione tesa, non ostile ma quasi imbarazzata, è la prova che il film ha colpito nel segno. Perché brucia).
E' ancora come allora Cinisi, o è cambiata e come? Lo chiedo ai compagni con i quali ho voluto venire a rivedere il film quaggiù, molti di loro raffigurati nella pellicola come ragazzi, nella vita ormai bianchi di capelli. Racconta Salvo Vitale - l'amico più vicino a Peppino, quello che annunciò alla radio l'assassinio - che dopo il lungo tunnel buio degli anni '80 ci fu un'apertura, un mutamento, indotto dalla stagione dei giudici coraggiosi. Qualche anno, poi tutto si è richiuso. In quel periodo - racconta un altro - riuscii persino a diventare assessore, eletto in una lista civica di sinistra. E riuscii a dedicare una strada di Cinisi a Peppino. Solo quattro anni fa.
I ragazzi di oggi - racconta la direttrice della biblioteca comunale - leggono molto di più, sono più colti. Ma non cercano, non sanno, né si chiedono, dove devono andare.
Peppino lo sapeva e lo testimoniano i libri che la sua mamma tiene ancora gelosamente allineati nella sua stanza, restata così come era allora. Sono i libri che avevano tutti negli anni '70, con un di più che segnala una curiosità, un'apertura che lo avevano reso un militante un po' speciale, capace di capire le nuove culture del movimento, e assieme però fermissimo nel rifiutare quanto nell'incontro con un drappello di "indiani metropolitani" milanesi e nord europei gli appare subito evasione, ripiegamento sul privato.
Tutte queste cose su Peppino Impastato - che pure incontrai ad una delle prime riunioni nazionali delle radio che allora chiamavamo "libere" e poi divennero "private"; e forse rividi anche in Sicilia, in manifestazioni e comizi (nella sua stanza c'è ancora, ingiallito, il manifesto comunale con i candidati per le elezioni municipali, il suo nome al numero quattro della lista di Democrazia Proletaria, che allora era l'etichetta comune di tutti i cosiddetti extraparlamentari) - non le ricordavo. O forse, perché non avevo mai seguito le trasmissioni di radio Aut, non avevo mai saputo del suo estro, della sua ironia, della sua capacità di tradurre la politica in spettacolo popolare. Lo scopro ora perché il film di Marco Tullio Giordana mette in bocca allo straordinario attore, Luigi Lo Cascio, che lo impersona, esattamente le sue parole, quelle che aveva usato allora. Perché tutti i nastri delle registrazioni sono stati conservati. Ed utilizzati dalla sceneggiatura.
Io, come altri, non capimmo subito, neppure noi, come Peppino era morto. Anche il manifesto pubblicò solo un trafiletto con la notizia. E soprattutto sottovalutammo colpevolmente il significato del suo assassinio. Perché il destino aveva voluto che quando il suo corpo dilaniato dal tritolo fu trovato sui binari della ferrovia fosse il 9 di maggio, lo stesso giorno in cui era stato ritrovato il corpo di Aldo Moro a via Caetani. Santo Vitale lo dice nel suo annuncio a Radio Aut e dice di capire che un evento di tale portata politica era naturale che prevalesse. Ma poi scatta in un moto di rabbia e grida: "e poi chi se ne frega di un ragazzo siciliano morto ammazzato in un paesino sconosciuto?". Non perché ce ne fregassimo, certo, ma perché anche tutti noi fummo travolti da quegli eventi di Roma, fummo distratti.
Distratti per anni restarono in tanti. Colpevolmente disattenti, anzi attivamente conniventi, i carabinieri e i magistrati, che coprirono le prove pur evidentissime e archiviarono il caso come suicidio, qualcuno come incidente nel corso di un atto terroristico. Come Feltrinelli. Ora almeno qualcosa è cambiato: si è ricominciato ad indagare. Due anni fa, come dicevo, il rinvio a giudizio di Gaetano Badalamenti - "Tano seduto", lo chiamava ironicamente Peppino - e poi la Commissione antimafia e la sua diramazione "Commissione Impastato", dinanzi alla quale hanno deposto il fratello Giovanni e la mamma Felicetta. Che la sua deposizione ci ripete con concisa lucidità, come spesso accade per eventi lontani rimasti scolpiti nel cuore, momento dopo momento di quella tragica sera. "Lo vedrò lo vedrò il film - ci dice - Ma non chiedetemi di farlo stasera. Non posso". E tutti la capiamo. Il 28 setembre ci sarà l'udienza in cui si deciderà l'ammissione delle parti civili, il Centro Impastato e Rifondazione comunista, in quanto erede di Dp.
Dopo aver visto il grande finale de "I cento passi" coll'enorme corteo, le bandiere rosse e i pugni alzati; e poi quello di un altro, straordinario film sulla Sicilia della mafia - "Placido Rizzotto", di Pasquale Scimeca, anche questo presentato a Venezia e accolto da un'altra standing ovation e anche questo storia di comunisti e di carabinieri coraggiosi (termina con l'episodio vero, nella Corleone di cinquant'anni fa, di una stretta di mano fra Pio La Torre e l'allora capitano Della Chiesa) - una giovanissima spettatrice venuta dal Belgio mi dice: "che strani siete voi italiani, ai festival del cinema sempre bandiere rosse e pugni alzati, che poi nel paese non vedo mai". Strani, è vero.
Quello che la ragazza indica avviene da qualche anno. Il cinema torna ad essere più avanti della società, come accadde nei suoi momenti più alti? Può darsi. Perché in realtà questi film non parlano di un passato ammuffito, non sono "nostalgici", come acidamente ha scritto Libération (ma anche Fofi, che forse, però, "I cento passi" non l'ha nemmeno visto, dato che lo chiama "I cento giorni" e dice che la storia si svolge nel '75). Direi, invece, che ripartono dal passato, lo vanno a riscoprire, nel suo aspetto più umano, quasi privato, certo non epico, per riprorre ragioni e valori. Forse sbaglio, ma mi pare assai importante.
E importante è anche che questo cinema italiano torna a piacere. A Terrasini, a un tiro di schioppo da Cinisi, le prime due sere di proiezione de "I cento passi" hanno fatto rispettivamente 10 e 13 milioni. Moltissimi anche a Milano e Roma.

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