Gli sciamani
e lo sviluppo
Portiamoci, ipoteticamente, in un villaggio di pescatori
della Papuasia, in cui lo stato complessivo del villaggio - la
sua riproduzione e la sua prosperità rispetto a villaggi analoghi
- sia il metro fondamentale del giudizio di ognuno. Si vive bene,
o si vive male, nel mio villaggio, per queste o queste altre
ragioni, questo è il giudizio che ogni membro del villaggio
esprime. Altro che Pil pro-capite! Supponiamo che il villaggio
avverta il declino della massa del pescato per unità di tempo.
Contromisure possibili saranno, ad esempio, un allargamento della
maglia delle reti per lasciar sfuggire i pesci più piccoli
(adattamento tecnologico), o la celebrazione di cerimonie
religiose, che precludano la pesca nel periodo della riproduzione
(adattamento sociale). Su ciò lo sciamano costruirà le sue
"teorie", magari balzane, orientate però, consapevolmente o
semi-consapevolmente, a promuovere la prosperità del villaggio.
Penserà poi il capo del villaggio a farle rispettare.
Ecologia, rifiuto
di un sapere frammentato, governo mondiale: ricetta non semplice
per salvare il salvabile
GIACOMO BECATTINI
Torniamo nel mondo civilizzato, o, come anche si dice, nel
"villaggio globale". Ebbene, questo villaggio, a differenza
dell'altro, non ha vera consapevolezza di esistere come comunità
umana. Il nesso più distintamente avvertito fra le sue diverse
parti è lo scambio delle merci. Nesso, questo, fra individui
singoli, che distingue e separa le relazioni di mercato dal
tessuto socio-culturale in cui sono immerse e da cui traggono
alimento. Nessuno (eccetto l'ecologista) si preoccupa di
rapportare gli effetti, d'altronde impercettibili, di ogni
singolo atto di scambio, alle condizioni della riproduzione
ecologica, sociale e culturale, della totalità mondiale. Buco
dell'ozono docet. La presenza dell'immagine di una
comunità mondiale di interessi e di sentimenti non è sentita come
indispensabile e, a parte gli utilizzi strumentali che qua e là
se ne fanno, viene rigettata, dal pensiero dominante, come
"torbida ideologia" agitata dai piantagrane di Seattle.
Il risultato, facile da prevedere, è che solo pochi (giusto gli
ecologisti) si preoccupano della reale, o potenziale,
"diminuzione del pescato", delle sue cause e dei possibili
rimedi. D'altra parte nessuno ha, comunque, la responsabilità e
il potere di attuazione dei rimedi eventualmente proposti. Accade
così, paradossalmente, che il "villaggio globale", con tutto il
suo apparato scientifico e i suoi raffinati marchingegni di
rappresentanza democratica, sia meno difeso dalle catastrofi
ecologiche dell'umile villaggio polinesiano!
Ma nel mondo di oggi c'è la scienza - si dirà - la quale provvede
a produrre continuamente soluzioni per le strozzature, anche di
natura ecologica, che via via si presentano! Questo è vero,
naturalmente, ma più in potenza che in atto. Infatti, mentre la
riflessione dello sciamano - inseguendo, beninteso, anche il
"suo" interesse - si rivolge, con la misera conoscenza di cui
dispone, alla prosperità complessiva del villaggio che lo
alimenta e lo onora, la ricerca dello scienziato contemporaneo
s'indirizza prevalentemente verso argomenti che interessano chi
ha il potere di acquisto e/o il potere di somministrare
distinzione sociale. La scienza, infatti, non è una astratta
funzione sociale, ma un processo profondamente ingranato nella
società che l'alimenta, agito da uomini che hanno le stimmate di
quella stessa società. E siccome quella società inculca l'idea
del successo individuale ad ogni costo - successo decretato da
chi ha il potere economico o sociale - ci sono poche speranze in
un ravvedimento di massa degli scienziati.
Lo stesso argomento vale, mutatis mutandis, per i
politici del villaggio globale. Se il governante di un singolo
stato a democrazia rappresentativa non ha un interesse diretto
alla prosperità del villaggio globale, perché dovrebbe
sacrificare a quel "non obbiettivo" gli obbiettivi che davvero,
concretamente, gli premono? E finché la maggioranza disinformata
e disattenta, autentico "parco buoi" della democrazia
rappresentativa, che quei politici vota e rivota senza saper bene
perché, non viene sottratta, da una nuova, incisiva, critica
sociale, al suo dormiveglia intellettuale, i movimenti ecologici,
con tutte le loro buone ragioni, hanno ben poco da sperare.
La sola, flebile, speranza di una conversione in massa di
sciamani e capotribù dei nostri tempi, io la vedo appesa a due
condizioni: a) se, poniamo, l'espansione degli scambi mercantili
richiedesse più lealtà e onestà e, al tempo stesso, producesse
meno lealtà e onestà, l'accidentalità intrinseca della soluzione
mercantile, col suo codazzo di disastri sociali (es. aumento
criminalità), verrebbe progressivamente alla luce; b) se,
poniamo, un gruppo di studiosi della società approfondisse
sistematicamente quel conflitto, la fiducia acritica nel
laissez faire, laissez passer, che oggi si tenta
d'inculcare con ogni mezzo, potrebbe venirne scossa. Un movimento
di opposizione che, forte di quella critica, inalberasse le
bandiere della lealtà e della onestà, cioè proprio quelle cose
che servono a far funzionar meglio la macchina del mercato - di
cui, reputo, non si può fare a meno - troverebbe orecchie meglio
disposte.
Io credo che qualche spazio per una nuova critica del mercato,
lungo le linee appena accennate, ci sia, e, corrispondentemente,
che si possano aprire spazi per un'azione politica di opposizione
costruttiva, che includa gli argomenti più solidi del movimento
ecologista. Il principale ostacolo ch'io vedo a questi sviluppi,
è dato, io penso, oltre, e persino più, che dalla difesa di
interessi sinistri (non della sinistra!), dalla svolta culturale
realizzatasi nella seconda metà del XIX secolo e ormai penetrata
profondamente nella nostra forma mentis. E' la
frammentazione del sapere sociale in tante discipline sconnesse
fra loro, che ha disarmato il pensiero critico, impedendogli, ad
esempio, di cogliere quel contrasto di cui ho parlato prima.
Distraendoci dallo studio dell'intimo consensus fra
tutti i fenomeni sociali, quella frammentazione ha "offuscato"
insieme, la percezione delle contraddizioni interne del pensiero
sociale e quella, morale, della "totalità mondiale". Cioè proprio
di ciò che i nostri scienziati sociali dovrebbero suggerire ai
nostri politici, per ri-accedere alla visione olistica dello
sciamano e del capo del villaggio.
Ma c'è, forse, un'altra via per rallentare, frattanto, il degrado
ambientale. Uno dei firmatari dell'appello, Giorgio Nebbia, ha
scritto una volta che "l'esame dei fenomeni e dei guasti
ambientali mostra che la politica del territorio va organizzata a
livello di bacino idrografico, l'unica unità geografica corretta
e significativa." Supponiamo ora che l'Italia venga suddivisa in
tante unità elementari (sistemi locali) secondo quel criterio e
che si statuisca che ogni unità debba avere, in linea di
principio, sia la bilancia economica che quella ecologica, almeno
in pareggio, se non in avanzo. Ebbene, in tal modo i nostri
sistemi locali approssimerebbero sì le condizioni del villaggio
primitivo, ma con tutti i vantaggi della divisione del lavoro,
della scienza moderna, del controllo democratico e della
solidarietà dei livelli di governo superiori. Ma un disegno del
genere, va detto, richiede più ricerca sociale e più politica,
non l'abbandono nelle braccia degli automatismi del mercato. Lo
sviluppo locale autoriproduttivo, in un quadro di competizione,
emulazione e cooperazione fra comunità locali autocoscienti, è la
sola risposta - ancorché parziale, imperfetta e difficile da
realizzarsi, ma, io penso, da sperimentare - a molti aspetti del
degrado ambientale, ch'io vedo possibile in un'economia
capitalistica come quella in cui viviamo.
Ma non basta: come complemento logico di tutto ciò, si dovrebbe
avere una gerarchia di governi nazionali e plurinazionali (questi
sì, basati sulla storia), culminante in un "governo mondiale
illuminato", che dovrebbe, da un lato, promuovere la ricerca che
serve allo sviluppo mondiale di lungo periodo, soprattutto quella
che trascende le possibilità del governo locale, e, dall'altro,
garantire imparzialmente il rispetto delle regole del giuoco.
Basta enunciarle, queste condizioni, per capire quanto ne siamo
lontani.
Riassumendo, io rispondo agli ecologisti patrocinando a) un
ritorno critico transdisciplinare, di alto profilo filosofico,
sul grande enigma della società umana; b) una campagna di
martellamento critico del sapere sociale "frammentario", che
rifiuta di darsi carico dei problemi della società umana come un
tutto; c) la riconsiderazione, "seria" e non strumentale, del
problema di un governo mondiale che si meriti, per la sua
imparzialità, la fiducia di tutti. E, in subordine,
l'apprestamento di strutture giuridiche e materiali atte a
promuovere lo sviluppo locale.
In risposta all'appello degli ambientalisti agli economisti
di sinistra ('il manifesto' 15/06) sono intervenuti Giorgio
Lunghini (23/06); Riccardo Bellofiore ed Emiliano Brancaccio
(26/07); Giorgio Ruffolo (30/07); Augusto Graziani (02/08);
Valentino Parlato e Giovanna Ricoveri (09/08)