Bosnia alla bancarotta
Le mancate riforme economiche e la dilagante corruzione anche ai
livelli più alti minacciano di portare alla bancarotta gli
attuali governi delle due entità che formano lo stato di
Bosnia-Erzegovina. Nel bilancio della Federazione
musulmano-croata il deficit si avvicina ai 140 milioni di marchi,
quello della Repubblica serba tocca i 200 milioni. "Si tratta di
una gravissima crisi finanziaria che minaccia la stabilità stessa
del paese - hanno dichiarato i capi delle missioni a Sarajevo del
Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale - e le
conseguenze potrebbero essere molto serie ed a breve scadenza",
forse ancor prima delle elezioni politiche di novembre. Fra i
provvedimenti da prendere con urgenza per impedire il collasso
vengono indicati: un taglio alle spese degli organismi statali, i
cui funzionari scialano a tutti i livelli, una seria lotta al
contrabbando ed alle evasioni fiscali. Sono fenomeni, questi,
presenti in Bosnia su vastissima scala. Stando ai dati a
disposizione del Cafao, l'ufficio dell'Unione europea per la
politica doganale e fiscale, la Bosnia perde ogni anno circa 500
milioni di marchi soltanto per il contrabbando delle sigarette.
Dito puntato sulla corruzione, spalle girate ai partiti
nazionali
GIACOMO SCOTTI -
ZAGABRIA
Per ora gli unici segnali di qualche cambiamento nel paese si
registrano nel campo della lotta alla corruzione: non passa
giorno che i giornali bosniaci non riportino notizie di arresti
di grossi papaveri corrotti, fra cui personaggi fino a ieri
considerati "intoccabili". Uno di questi è Alija Delimustafic,
uno dei più noti tycoon bosniaci, arricchitosi con la
guerra e i traffici illeciti del dopoguerra. Il capo della
missione Fmi in Bosnia, Joseph Ingram, ha annunciato la prossima
pubblicazione di un poderoso "rapporto" sulle radici e i punti di
forza della corruzione in Bosnia-Erzegovina. Sarà accessibile
all'opinione pubblica prima delle elezioni di novembre e conterrà
quasi certamente nominativi di personaggi - tra corrotti e
corruttori - presenti nelle liste elettorali.
Chi ha viaggiato attraverso la Bosnia in questi giorni di agosto,
come il vostro corrispondente, oltre a quella solare ha
registrato una rovente temperatura politica. Infatti, anche se
non ufficialmente, qui è già in pieno svolgimento la campagna
elettorale, e questa ha messo in moto processi che fino a pochi
mesi addietro sembravano impossibili. In breve: sono in atto da
una parte la secolarizzazione dello Stato in quegli ambienti in
cui fino a ieri la vita pubblica si era intrecciata alle attività
religiose, e dall'altra è evidente lo sfaldamento rapido dei
partiti nazionali, un fenomeno questo particolarmente forte nelle
file dei musulmani che in massa voltano le spalle a Izetbegovic.
Facciamo l'esempio di Maglaj, una città della Bosnia centrale.
Questa era diventata un centro rigidamente islamizzato per la
presenza nelle sue vicinanze di una nutrita colonia di mujaheddin
arabi, i quali hanno combattuto nelle file dell'Armata
bosniaco-musulmana durante la guerra. A costoro, nonostante
l'opposizione dei governi europei, le autorità bosniache di Ilija
Izetbegovic concessero la cittadinanza bosniaca, concedendo loro
inoltre il possesso e l'uso di un intero paese, Bocinja, alla
periferia di Maglaj, dove quei mercenari arabi si installarono
nelle case dalle quali erano stati cacciati gli abitanti serbi.
In sei-sette anni di permanenza, i mujaheddin hanno creato una
comunità islamica fondamentalista basata sulle più intransigenti
e retrograde tradizioni maomettane che hanno cercato di imporre
anche alla popolazione del territorio circostante. Il potere dei
fondamentalisti e la loro influenza sono stati tali che negli
organismi statali e municipali della regione di Maglaj erano
vietati fino a ieri perfino i saluti in serbo-croato come "buon
giorno" o "buona sera", sostituiti da quello religioso in lingua
araba "Salam Alleikum " (da cui ha origine l'italiano
salamelecchi) nel significato di "gloria ad Allah". I cittadini
di Maglaj che per tutti questi anni hanno votato compattamente
per il partito di Izetbegovic, quest'anno hanno voltato pagina.
Sotto il peso della miseria (i mujaheddin vietavano l'ingresso
nel territorio alle organizzazioni umanitarie europee, sicché non
arrivavano aiuti), ma soprattutto perché stanchi del fanatismo
religioso, alle recenti elezioni amministrative hanno votato per
i partiti laici, con in testa il socialdemocratico, insediando
una municipalità di centrosinistra. Immediatamente c'è stata una
svolta politica radicale: la nuova amministrazione ha costretto i
mujaheddin a lasciare le case occupate, invitando i legittimi
proprietari a tornare a Beocina e nella stessa Maglaj, sicché
presto alcune migliaia di profughi serbi e croati bosniaci
potranno rientrare dopo otto anni nelle loro case. Per impedire
eventuali resistenze armate, le nuove autorità hanno proclamato
nel territorio lo stato di emergenza straordinaria e, con l'aiuto
della polizia, hanno costretto gli intrusi a sloggiare.
Troveranno sistemazione altrove, e comunque sparpagliati.
I cambiamenti avvenuti a Maglaj si ritrovano in numerose altre
località della Bosnia dove si erano creati problemi simili. Sono
semplicemente crollati dei tabù che finora sembravano
inamovibili. E' stato fatto capire che nessuno può impunemente
appropriarsi della casa altrui o cacciare qualcuno dal suo paese
per il solo motivo della diversità religiosa o nazionale. E'
stato dimostrato che i bosniaci musulmani possono conservare la
propria identità senza dover essere arabizzati, la "rivoluzione"
è ormai inarrestabile ovunque.
Alquanto diversa è la situazione nei territori della Repubblica
serba di Bosnia e dell'Erzegovina nord-occidentale abitata
prevalentemente da croati (di cui diremo in un prossimo
servizio), ma anche lì è in atto una rapida evoluzione in seno ai
partiti nazionali.