"Non vogliamo essere complici"

NICOLETTA DENTICO *

"Non vogliamo essere complici"
Msf: la nuova pulizia etnica è una sfida all'Occidente che ha bombardato per fermare la pulizia etnica
NICOLETTA DENTICO *


Insicurezza estrema e continuo, intollerabile deterioramento delle condizioni di vita delle minoranze etniche. Inequivocabile la diagnosi di Medici Senza Frontiere sul Kosovo (Msf), ed altrettanto netta, seppure durissima per le sue implicazioni umanitarie, la terapia: ritirarsi, per non prestarsi al gioco sempre più oltraggioso di "umanizzare" il processo di pulizia etnica in corso. Andarsene, denunciando l'insipienza della comunità internazionale, distratta o addirittura assente corresponsabile della drammatica situazione.
La provocazione deve aver toccato sul vivo, la risposta non si è fatta attendere. L'Unmik, l'amministrazione civile dell'Onu in Kosovo, ha infatti reagito immediatamente con la creazione di una commissione di controllo che, ha riferito la portavoce Susan Manuel, avrà l'obiettivo di raccogliere dati "sulla quantità e la tipologia delle violenze etniche nella provincia". In pratica, dovrà determinare un censimento degli incidenti politici. Oltre ad includere Bernard Kouchner, rappresentante di Kofi Annan in Kosovo, questa nuova cellula sarà composta dalla polizia dell'Umnik (già impegnata, sulla carta, a garantire la protezione delle minoranze), dai rappresentanti Osce, incaricati del monitoraggio sui diritti umani, e dalle forze Nato (Kfor). L'intento è quello di mettere a punto un dispositivo di prevenzione della pulizia etnica, alla vigilia delle elezioni amministrative previste a ottobre. Ma serve una nuova struttura per un problema così profondo e rabbioso?
L'intimidazione organizzata contro le minoranze in Kosovo - sia che si tratti della comunità albanese o bosniaca nelle enclave di Mitrovica o delle minoranze serbe e rom nel territorio controllato dai kosovari albanesi - non può più essere imputato a responsabilità individuali o, semplicisticamente, ad un clima di intolleranza diffuso. Fa parte di una feroce e meticolosa regia mirata a espellere i vari gruppi etnici, nella totale assenza di un sistema giudiziario. E' la sfida contro la coalizione occidentale, intervenuta in Serbia con due mesi e mezzo di bombardamenti a tappeto per fermare la pulizia etnica, e da un anno inetta macchinista di un processo di convivenza bugiardo e senza garanzie, declinato nel segno dell'impunità. La trappola in cui è caduta la comunità internazionale semina barbarie tra i gruppi serbi, le comunità bosniache, i Rom, i turchi e gli slavi musulmani del Kosovo. L'illusione che la presenza degli operatori umanitari possa dissuadere gli aggressori è, alla fine, solo un altro inganno. I resoconti sono frammenti di vite impossibili da ricostruire, storie di una sofferenza collettiva spezzettata in tante storie individuali balbettate a stento, quasi sotto voce, per paura del nemico qualunque. Come quelle della coppia di kosovari albanesi (66 anni lui, lei 64) che vivono a Mitrovica nord, in una casa a ridosso del ponte che divide la città, vicino al Dolce Vita, il luogo di ritrovo dell'estremismo serbo. Il terrore non li fa più uscire di casa, neanche per recarsi al centro di distribuzione del cibo di Madre Teresa. Tra due visite dei team di Msf, la loro abitazione è stata bersaglio di colpi di arma da fuoco, alle 8 e mezza di mattina. Le forze della Kfor sono arrivate solo due ore dopo. Hanno bisogno di sostegno psicologico attivo e costante, ma hanno chiesto ad Msf di interrompere l'assistenza, per non attirare l'attenzione dei serbi.
A una famiglia kosovaro-bosniaca di Mitrovica la guerra ha rapito figlia e cognato (non hanno notizie da più di un anno). Restano in otto, da quando sono cessati i bombardamenti Nato, e da allora ne hanno viste di tutti i colori. Persone uccise sotto casa. Irruzioni da parte di una banda di 9 miliziani serbi armati. Attendono il loro turno per la fatidica "evacuazione in cinque minuti" che, un po' alla volta, sta svuotando la città. I vicini di casa serbi di vecchia data sono la sola protezione, ma una debole protezione.
Minacce verbali, aggressioni fisiche, lancio di pietre, pestaggi, rapimenti, spari. La gente nasconde di notte le cose di valore (le televisioni, i frigoriferi) per prepararsi al turno dell'evacuazione - si calcola che 45 famiglie abbiano abbandonato le proprie case dall'inizio di maggio, ed in questa zona non vivono ormai che 200 famiglie albanesi. Gli uomini dichiarano la loro provata sfiducia nei confronti dei soldati Kfor, che assistono agli incidenti senza intervenire. E' un sentimento diffuso, tra le minoranze presenti in tutto il Kosovo. Nessuno, qui, si sente realmente protetto dalle truppe della Nato. Nessuno vuole più comunicare con i familiari lontani al telefono, per timore delle intercettazioni.
Le granate piovono sui villaggi serbi di Suvo e Banja (distretto di Skenderaj) e a Gojbulja, Grace, Banjska, Slatina e Prelluzhe, nel distretto di Vushtri, circondati da popolazione albanese. E' un fiume di date e di ricordi l'improvvisato portavoce di un gruppo di residenti nella enclave di Slatina - 3 donne, 7 uomini, ed un giovane trentenne: tutti senza le rispettive famiglie - che snocciola un episodio dietro l'altro dall'inizio dell'anno: furti continui di bestiame, incendi di stalle e cibo per gli animali, attacchi a case e persone, spari contro i contadini al lavoro nei campi. La maggior parte degli abitanti di queste aree sono persone anziane prive di risorse finanziarie per trasferirsi in zone meno ostili. Non hanno mezzi di trasporto, ciò che li rende ancora più vulnerabili: vivono nel terrore, senza possibilità di fuga. Non si sentono protetti dai checkpoint della Kfor-Nato, con cui non hanno rapporti. Nel villaggio di Svinjare, 600 anime in 130 abitazioni, le 25 famiglie albanesi che vivono nella zona sud non percorrono le strade a piedi per le provocazioni degli automobilisti, che simulano gli investimenti. Ma la stessa sorte tocca anche agli abitanti serbi, contro i quali si registrano atti di terrorismo quotidiano, racconta un insegnante delle scuole elementari locali. Le segnalazioni di questi incidenti non hanno mai sortito il minimo riscontro da parte della polizia civile e delle forze Kfor di Mitrovica.
Le vittime si contano a dozzine negli ultimi mesi in tutto il Kosovo. La gran parte della comunità Rom ha ormai abbandonato il paese. Dal punto di vista dell'assistenza medica, per Msf, il trasporto di un serbo ferito in un'area sotto il controllo albanese è divenuto troppo rischioso.
In un contesto simile, la nostra azione non riusciva più a rispondere alle vere necessità della popolazione. Servizio migliore sembrava, dopo lunghe settimane di valutazioni e dibattito, la denuncia della barbarie, sotto gli occhi degli attori internazionali. La motivazione umanitaria non può infatti servire da copertura a ciò che in realtà è negazione della giustizia. Dopo le nuove incredibili accezioni che il termine umanitario ha assunto dopo la vicenda del Kosovo, ed i nuovi modelli instaurati in termini di rapporto fra governi donatori e agenzie di emergenza, non è più possibile far finta di nulla, e agire da umanitari senza bussola.
*Direttore Esecutivo
Medici senza Frontiere Italia


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