Il Veneziano in gioco

DANIELE ARCHIBUGI

Il Veneziano in gioco
Il dialogo tra un attempato conte e un Casanova evaso dai Piombi ne "La recita di Bolzano", un romanzo di Sandor Màrai
DANIELE ARCHIBUGI

E' noto che gli scrittori hanno bisogno di creta e di argilla. La prendono lì dove possono e, seguendo la loro ispirazione, la riscaldano, la modellano, la plasmano ed infine la stendono sulla carta. Soltanto ad opera finita, come insegna Pigmalione, gli scrittori si avvicinano al foglio e lo baciano; inizia così la marcia, spesso solitarie e dimessa, solo raramente gloriosa, di un'opera d'arte. Ma da dove vengono creta e argilla? Le si trova un po' ovunque. Basta sfogliare la cronaca nera per trovare più di una cava: a questa fonte attingevano a man bassa Balzac, Stendhal, Dostoevskij e tanti altri. Alcuni trovano la materia prima affacciati alla propria finestra, allungando l'orecchio nei viottoli o girando lo sguardo nei saloni da ballo.
Quanta creta si ritrova nelle migliaia di fogli manoscritti contenenti le memorie di Giacomo Casanova? Diversi critici, in Italia più che in Francia, hanno giudicato severamente l'ambizioso tentativo del Veneziano di assicurarsi una seconda vita nel modo più semplice: raccontandosela. Casanova è stato giudicato per quello che non era: memoralista, avventuriero, viaggiatore o semplicemente testimone del tempo. Nulla di tutto ciò: Casanova non intendeva far altro che procurare pietre grezze che altri e più avveduti artisti avrebbero pensato a scolpire, raffinare e plasmare; aveva più gusto che talento letterario, ed era consapevole che molti gli erano superiori come scrittori, ma ben pochi avevano così tanto da raccontare.

Casanova sapeva che non tutta la materia prima è della stessa qualità, e pure che lui smerciava quella buona. Perché fornisce una prospettiva sulla vita vissuta che solamente chi è arrivato al tramonto della propria esistenza può trasmettere ai più giovani. Chiunque si sia avvicinato a quel meraviglioso rimugginamento che sono le Memorie ha infatti sperimentato la sensazione di onnipotenza che Casanova dona a chi lo legge. "io vivo ormai, dopo aver vissuto in lungo e in largo - egli lascia intendere - solo perché tu mi stai ascoltando". Come può il lettore non farsi trascinare dal racconto e riprendere la narrazione? Lo scrittore si farà in quattro per plasmare il personaggio come un tema ossessivo che rimane in testa e che si fischietta e si ripete all'infinito, fino a quando l'ultimo strimpellatore non lo sottrae in via definitiva al suo compositore.
Anche Sandor Màrai è ricorso alla vita di Casanova per dar vita al protagonista de La recita di Bolzano (Adelphi, trad. it. di Marinella D'Alessandro, pp. 264, L. . 28.000). Màrai ha preso in prestito dati di fatto quali la fuga di Casanova dalla prigione dei Piombi del 1756 in compagnia del monaco Marino Baldi e i sei giorni di permanenza a Bolzano in attesa di incassare una lettera di cambio del suo protettore Bragadin. Dati caratteriali, quali la passione per le donne, il gioco d'azzardo e la narrativa. Ma nel plasmare il personaggio gli cambia i connotati: lo rende più vecchio di otto anni (il nostro aveva trentadue anni al momento dell'evasione mentre è sulla soglia dei quaranta nel romanzo) e più basso di una spanna (snello e alto sei piedi, una delle stature più imponenti del Secolo dei lumi, viene trasformato in tracagnotto e grassottello). Per quanto riguarda l'età, noto che Màrai ha dato a Casanova quella che aveva lui nel momento in cui licenziò il volume per la stampa nel 1940, e tanto evidente è l'immedesimazione con il protagonista del romanzo che non sarei sorpreso se lo scrittore ungherese avesse la stessa statura e pinguedine che attribuisce all'eroe veneziano. Per il resto, Màrai usa Casanova come un blocco di argilla, come prima di lui avevano fatto, per citare solo i più prossimi geograficamente, Hugo von Hofmannsthal, Arthur Schnitzler, Stefan Zweig, Herman Hesse e Louis Fürnberg.
Come nel romanzo che pubblicherà nel 1942, Le braci, e che ha riscosso un così grande successo in Italia negli ultimi due anni, ritroviamo qui le stesse ossessioni e la stessa narrazione. I temi ossessivi sono quelli dell'incontro decisivo tra due persone al crocicchio della propria esistenza: ne Le Braci erano i due protagonisti Henrik e Kondrad a doversi spiegare perché - dopo più di quarant'anni - il loro sodalizio si era bruscamente interrotto. Per farla breve, la risposta è "per una donna", ma con quanta finezza narrativa Màrai tesse su questo fatto. Ne La recita di Bolzano, i due personaggi costretti a reincontrarsi sono in momenti assai diversi della propria esistenza: da una parte Casanova che, riappropriatosi della libertà, deve spendersi la seconda metà della vita, dall'altra un Conte di Parma ormai pronto a prendere commiato dal mondo.
Non potrebbero essere più diversi per estrazione sociale e ideologia. Anche loro sono accomunati da una donna, anzi una fanciulla che, innamorata di Casanova come tante altre adolescenti dell'epoca, ma oramai diventata addirittura Contessa di Parma e venerata dal suo assai attempato marito, tenta disperatamente di ritrovare il proprio amore. Per età ma anche per la precoce consapevolezza delle miserie umane, la Contessa Francesca di Màrai rammenta Manon Balletti, che indirizzò a Casanova, appena fuggito dai Piombi, appassionate lettere nelle quali gli offriva il suo amore e la sua vita.
Avventuriero e Conte amano la narrazione, e proprio nella narrazione si ritrovano. Nel suo monologo, che inevitabilmente richiama quello di Henrik ne Le braci, il Conte riesce a sviscerare ogni recondito sentimento covato dalla propria moglie nelle sole tre parole che lei indirizza a Casanova: "Ti devo vedere". Ugualmente notevole il monologo che Francesca recita all'uomo che ama, un vero e proprio atto di devozione assoluta che anticipa addirittura nel contenuto la perdizione della O di Pauline Réage. Non è certo intimidito dai monologhi, Màrai, e se il lettore può ogni tanto lamentarsi di qualche variazione di troppo sullo stesso tema, certamente rimane magnetizzato dalla parola scritta, volta assai felicemente in italiano dalla D'Alessandro.

Continuano ad essere periodicamente generate biografie di Casanova che ben poco aggiungono alla comprensione del personaggio (se non per ridurre in un solo volume quelle migliaia di fogli che ci ha lasciato il Veneziano). Rammento, senza pretesa di completezza, e solo tra i più recenti, le divagazioni pseudofilosofiche di Philippe Sollers (Casanova l'admirable, Plon, 1998), la pacifica biografia di Elio Bartolini (Vita di Giacomo Casanova, Mondadori, 1998), il bignami di Lydia Flen (Casanova ou l'esercice du bonheur, Seuil, 1999), e il più meditato saggio di Giorgio Ficara ( Casanova e la malinconia, Einaudi, 1999). La creta è duttile, oltre che abbondante, fino al punto di poter essere agevolmente trasformata in celluloide (rammentiamo i film ispirati a Casanova di Comencini, Fellini e Scola). La recita di Bolzano si presta ad ulteriori manipolazioni: può agevolmente diventare una sceneggiatura. A Màrai il merito di aver saputo plasmare il personaggio Casanova, certamente assai più di quanto un filologo ritenga lecito. Ne doveva essere lui steso consapevole, se ha voluto giustificarsi di fronte al lettore con una inutile "Avvertenza". Ma non è detto che i più fedeli interpreti siano i più ispirati. Màrai appartiene al secondo gruppo.

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