Regista in concerto

MARCELLO LORRAI - VERONA

Regista in concerto
L'arte precaria di Kip Hanrahan e i poderosi African Boom Bop a "Verona Jazz"
MARCELLO LORRAI - VERONA

Da tempi non sospetti (cioè ben prima che sull'onda della mania per gli ottuagenari di Buena Vista Social Club i festival jazz a corto di idee infarcissero di Cuba i propri cartelloni), la storia di Verona Jazz è stata venata da un competente, sofisticato interesse per la musica latina e i suoi legami con la vicenda jazzistica. Non può sorprendere dunque che una rassegna che aveva presentato, non molto prima della morte, il compianto Mario Bauza, covasse da anni il desiderio di portare al Teatro Romano una figura come Kip Hanrahan, le cui esibizioni in Italia si contano sulle dita di una mano.
Classe '54, newyorkese, di origini irlandesi ed ebraiche e di formazione marxista radicale, Hanrahan è cresciuto nel Bronx, a contatto di gomito con la musica latina. E abbondanza di strumentisti e soprattutto percussionisti latini si trova nei dischi che a partire dai primi anni ottanta Hanrahan cominciò a confezionare. Fece scalpore con atmosfere di singolare raffinatezza e straniamento, ottenute shakerando - cosa all'epoca decisamente innovativa - i contributi di personaggi di primo piano provenienti da ambiti tendenzialmente separati e percepiti come tali dai consumatori: l'avanguardia jazzistica bianca e nera (Carla Bley, Chico Freeman, Don Pullen, Henry Threadgill, Lester Bowie), l'avantgarde noise (Arto Lindsay, Bill Laswell), il rock (Jack Bruce), il blues e dintorni (l'atipico Taj Mahal, Allen Toussaint, Charles Neville), nonché appunto la musica latina, per esempio col contrabbassista Andy Gonzales e il percussionista Milton Cardona, entrambi presenti nel gruppo di Hanrahan a Verona. Hanrahan si fece notare anche come produttore: curando uno splendido album personale di Cardona, un omaggio a e con Teo Macero, un celebre disco dei Dna, magnifici titoli di Astor Piazzolla e i propri dischi, alcuni dei quali, come Coup De Tete o Vertical's Currency, sono da annoverare fra le migliori uscite in assoluto degli anni ottanta.
La passione di Hanrahan per il cinema, che Kip ha anche tentato di praticare ("nel '77 ero venuto in Italia per lavorare con Bertolucci, ma abbiamo litigato prima ancora di cominciare: sono un tipo difficile", ci raccontava in questi giorni a Verona), ha suggerito a qualcuno di paragonarlo più ad un "regista" di situazioni sonore che ad un vero e proprio musicista. A Verona, senza toccare strumenti, Hanrahan si aggirava sullo sfondo, cercando di indirizzare e di tenere a bada la sua esuberante congrega di percussionisti e cantanti (con la vocalist Xiomara Laugart protagonista) più contrabbasso e violino. E davvero veniva da pensare a un filmaker che dopo avere fissato su pellicola, con tutti gli artifici consentiti dal mezzo, situazioni di straordinario fascino, faticherebbe a riprodurre la magia del cinema in presa diretta, senza trucchi, per un pubblico e con attori in carne ed ossa.
L'arte di Kip Hanrahan corre il grosso rischio di apparire ingenua e precaria, quando dal "cinema" dei suoi dischi passa alla dimensione invece "teatrale" del concerto. E forse qualcosa di schiettamente "teatrale" è stato quello che ha avuto di più godibile la performance della band di Hanrahan, che si presentava sotto l'intestazione di "Deep Rumba", titolo dell'ultimo album del musicista/produttore: una sorta di spontanea, anche un po' sgangherata, in questo senso involontaria messa in scena di un certo gusto del fare musica di matrice tipicamente afrocubana, con la sua giocosa reiterazione che può sfociare però in qualcosa che è vicino alla transe, col suo humour, la corporeità e le allusioni erotico-sessuali, tutte cose che però non impediscono di assumere a questa musica - e al farla - un carattere di comunione quasi mistico-religiosa, eredità, in una forma profana, delle musiche indirizzate alle divinità che stanno alla base della musica afrocubana e che tuttora ne innervano fortemente una parte: a Cuba come a New York. "Mi piace il son che va di moda adesso", ci diceva Hanrahan, "ma in fondo è intrattenimento. La rumba è un'altra cosa, è qualcosa di molto più profondo".
Nel vastissimo ma certo non esaltante panorama dei festival jazz dell'estate italiana, Verona Jazz è riuscita una volta di più a distinguersi dalla banalità dilagante con un programma consistente e largamente originale e alcune punte di notevole qualità. Se Carla Bley e Steve Swallow in connubio con un complesso di carattere cameristico hanno proposto una musica calligrafica, estetizzante e in definitiva un po' inconsistente, estremamente comunicativa e accattivante (in questo guadagnando e presentandosi con accenti diversi rispetto al pur pregevolissimo disco Blow Up) è apparso il duo francese fuoriclasse di Richard Galliano, alla fisarmonica, e di Michel Portal (clarinetto, clarinetto basso, sax soprano e bandoneon).
Poderoso poi il gruppo African Boom Bop di Jean-Paul Bourelly. Il chitarrista neroamericano annovera fra l'altro collaborazioni con l'avanguardia di Chicago, con Miles Davis, i Defunkt, ed è uno dei pochi musicisti di estrazione jazzistica ad avere offerto - non da oggi -prove persuasive su un terreno, quello dell'incontro di jazz e musicisti dell'Africa occidentale, dove la banalità incombe. A Verona Bourelly si è presentato con i senegalesi Ibrahim N'Diaye Rose (figlio di Doudou N'Diaye Rose) alle percussioni e il cantante Abdourahmane Diop, il batterista camerunese Felix Sabaal, Carl Bourelly alle tastiere, Reggie Washington al basso elettrico e come ospite Archie Shepp al tenore e soprano e alla voce. Con Boom Bop (che si potrà presto ascoltare nell'album omonimo dell'austriaca Pao Records) Bourelly non smentisce la forte inclinazione blues-rock: la musica è davvero "nera", un black rock aggressivo, rude e gustoso, pieno di motivi di stimolo. Per esempio la bella vena hendrixiana della chitarra e del canto del leader, la non comune autorità e intelligenza di Washington, i perentori colpi sui sabar di N'Diaye Rose, il canto roco e drammatico di Diop, un commovente blues urlato come un ossesso dall'alfiere della new thing, che per un momento sembra ritrovare la foga degli anni ruggenti. E verso la fine il gioco della ritmica, delle tastiere, e del pungente, stridulo sax soprano di Shepp e certe eleganti reiterazioni di Bourelly riportano al Miles Davis dei primi anni settanta.
Almeno nella cornice del Teatro Romano, Cuba e Africa non sono state ridotte al trend del momento.

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