CROAZIA
- GIACOMO SCOTTI - ZAGABRIA-KNIN
Q uanti sono i serbi fuggiti dalla Croazia dal 1991 in poi, e quanti dei profughi serbi sono tornati in Croazia dopo la fine della guerra? Nessuno lo sa con precisione. Perché la pulizia etnica in Croazia non colpì e travolse soltanto le popolazioni dell'ex Krajina di Knin, la quale rimase pressoché spopolata dopo l'agosto del '95, ma anche altre regioni e città risparmiate dalle operazioni militari come Zagabria, Spalato, Fiume, Pola e altre dalle quali i serbi - cacciati dai posti di lavoro, fatti oggetto di attentati dinamitardi, persecuzioni e discriminazioni d'ogni genere - se ne andarono alla spicciolata, giorno dopo giorno, mese dopo mese, raggiungendo per lo più paesi occidentali, o dirigendosi per vie traverse (quasi sempre attraverso l'Ungheria) verso Serbia, Montenegro e "Repubblica serba" di Bosnia, dove speravano di vivere giorni migliori. Trovarono, invece, miseria e squallore solo in parte compensati da solidarietà umana.
Nessuno è in grado di tirare le somme: si va dai 250 ai 450mila esuli dalla Croazia. Quanti di questi sono tornati? Anche qui, una gara di cifre. A dar credito alle statistiche di Belgrado, dalla Jugoslavia in Croazia sono tornati 40.000 profughi negli ultimi quattro anni di pace. Ma quanti sono rientrati dai paesi dell'Unione europea? Quanti sono i serbi nati in Croazia che si sono ben sistemati nell'Europa occidentale, nell'America del Nord e perfino in Australia, decidendo di non più ritornare?
A decidere per il ritorno sono per lo più i vecchi, che vogliono almeno morire sulla terra in cui nacquero essi e i loro padri, ma formano già un piccolo esercito i bambini nati in esilio che non conoscono la Croazia come loro patria. Si calcola comunque che almeno centomila serbi di Croazia vorrebbero ancora tornare, sperando in condizioni di vita e in un clima politico migliori di quelli trovati dai loro connazionali, rientrati prima della sconfitta dell'Hdz di Tujman.
Lunedì, alla Tavola rotonda del Patto di solidarietà di Budapest, i rappresentanti del governo croato hanno presentato un progetto per il rientro in Croazia nei prossimi sei mesi di 7.000 famiglie ovvero di 16.500 serbi, chiedendo un contributo di 55 milioni di dollari per la costruzione o ricostruzione delle case in cui saranno sistemati. Per le fasi successive del rimpatrio (il progetto dovrebbe esaurirsi in quattro anni) servirà invece un miliardo di dollari, 250 milioni di dollari l'anno.
Considerando positivamente il programma del nuovo governo, gli esponenti della comunità serba in Croazia da noi interpellati ritengono intanto che il governo dovrebbe in futuro consultarsi con loro, e poi che il progetto governativo dovrebbe puntare su un numero maggiore di persone, in modo da permettere il rientro dei profughi in tempi più brevi.
La tattica del rinvio era quella di Tudjman: non può essere fatta propria dal centrosinistra salito al potere sulle ceneri del vecchio regime. I 16.500 rientri previsti entro l'agosto di quest'anno - afferma Milorad Pupovac, presidente del Consiglio nazionale serbo (Snv) in Croazia - si riferiscono solo alle persone le cui domande di rientro sono state finora approvate dalle competenti sedi dell'Unhcr, della Croazia e della Jugoslavia, mentre ben più numerose sono le richieste non ancora "evase".
Lo stesso Pupovac fornisce cifre anche sui serbi tornati in Croazia negli ultimi quattro-cinque anni: si va dai 60 ai 70.000 individui, dice. Aggiunge che anche a loro - e non soltanto ai futuri rimpatriati - bisogna fornire aiuti, e subito, perché da mesi, o anni attendono una casa, una sistemazione; bisogna destinargli, perciò, una parte degli aiuti internazionali.
In questa situazione difficile è piovuta come una bomba la notizia che il nuovo ministro della difesa, il social-liberale Rados, ha nominato come proprio aiutante un ex intimo di Tudjman: Stjepan Sterac, protagonista della cacciata dei serbi dalla Krajna.
Rinasce dunque la paura tra coloro che ancora attendono di poter ritornare. Dei 60-70mila già rimpatriati, ci sono cinquemila serbi rientrati nella Slavonia orientale e Baranja (Podunavlje), altri nella Krajina di Lika-Kordun-Banovina, e altri ancora sparsi presso parenti nelle varie regioni croate. Il maggior numero di rientri - anche se bassissimo rispetto all'esodo biblico del '95 - si è registrato nella Krajina di Knin. Ma qui, più che altrove, le cifre sono ballerine. Nemmeno i funzionari dell'"Ufficio di governo per profughi e rifugiati" a Knin sanno quanti siano i serbi tornati "a casa" nella regione. Perché, dicono, "è impossibile controllare i movimenti di queste persone (quasi esclusivamente anziani, ndr ), e non tutti si rivolgono a noi per iscriversi nei registri della popolazione".
Hanno paura. Quelli che varcano la soglia dell'Ufficio governativo sottoponendosi agli interrogatori, lo fanno per poter riscuotere la pensione arretrata e rientrare in possesso dei loro beni. Alcuni, dopo aver ottenuto gli attestati di proprietà, ma non il possesso delle case e/o terre, cedono alle pressioni di quelli che ci stanno dentro, finendo per vendere tutto e tornare indietro in Serbia o in Bosnia, dove hanno vissuto gli amari anni dell'esilio. Altri ancora si rivolgono alle organizzazioni umanitarie internazionali.
Accostando i dati incompleti di queste organizzazioni a quelli, altrettanto approssimativi, dell'Ufficio governativo, si giunge alla conclusione che dei trecentomila serbi fuggiti dalle terre in cui vivevano da generazioni, da quella Krajina che nell'agosto del 1995 fu messa a ferro e fuoco, sono riusciti finora a tornarvi non più di ventimila. La "capitale" Knin, rimasta pressoché deserta in quel terribile agosto, conta ora fra i 18 e i 22mila abitanti (anche su questo punto le fluttuazioni sono molto ampie), dei quali 7.000 serbi e 3.000 croati autoctoni, - ex profughi gli uni e gli altri - e ben 10.000 croati fatti arrivare dalla Bosnia per colonizzare la regione. A Knin vive pure un numero imprecisato di persone di varie nazionalità arrivate da diverse regioni della Croazia, per lo più avventurieri.
E' noto che nel corso e dopo la "liberazione" di Knin e della Krajina folti gruppi di assassini, incendiari e saccheggiatori si riversarono in quelle regioni, distruggendo quello che nelle operazioni militari era stato risparmiato da cannoni e mortai: più di cinquantamila case e altri edifici. Per cui sia i croati del luogo tornati dopo la riconquista, sia i coloni croati affluiti dalla Bosnia si sono insediati nelle (poche) case rimaste intere. Quando a tornare sono stati i serbi - pochissimi, lo abbiamo visto - hanno trovato le loro case o distrutte o occupate da altri. E lo sono tuttora.
A versare olio sul fuoco, negli anni passati, sono state le stesse autorità tudjmaniste, creando separazioni, attizzando scontri e rancori che si aggiungono al male seminato con la guerra. A tutto questo si aggiungono il disagio economico, la disoccupazione, una vita misera.
Di tutti gli abitanti di Knin, solo 2.300 hanno lavoro; si tratta quasi esclusivamente di croati - impiegati di enti statali e parastatali, militari e poliziotti, ferrovieri, operatori scolastici e sanitari. Nessuna fabbrica, qui, è stata ricostruita. Chi non lavora, vegeta grazie all'assistenza fornita dalle venti e più organizzazioni internazionali presenti nella città dominata dalla grandiosa antica fortezza turco-veneziana.