L'adunata dei refrattari

LUCIANA CASTELLINA

L'adunata dei refrattari
Da Seattle a Washington. E, in mezzo, i mille rivoli della protesta contro i mercanti della vita: un nuovo movimento alla ricerca di un agire comune

LUCIANA CASTELLINA

N el 1986 il Tribunale internazionale per i diritti dei popoli (uno degli organismi creati da Lelio Basso per denunciare la repressione colonialista e neo-colonialista) convocò a Berlino, una sessione che per la prima volta portava sul banco degli accusati soggetti assai diversi dal passato: non i regimi di questo o quel paese, ma le grandi istituzioni internazionali, nel caso specifico l'Fmi e la Banca mondiale che nella parte occidentale della città tedesca tenevano allora la loro annuale riunione. Fu un grande successo per il livello dei personaggi che si riuscì a far collaborare assegnando loro il ruolo di pubblici ministeri, avvocati della difesa, testimoni e vittime e per la soddisfacente mobilitazione che l'iniziativa suscitò in particolare fra gli studenti.
Fu un inizio: da allora, quasi ogni anno, con alti e bassi, si sono succedute iniziative analoghe in giro per il mondo, dando continuità soprattutto al vertice dei 7 paesi più poveri del mondo, che , puntualmente, si è riunito in parallelo a quello dei 7 più ricchi. La parola "globalizzazione" non era ancora in uso, ma erano già stati individuati i santuari dei nuovi poteri, ormai transnazionali.
Poi, per qualche anno, sembrò che il movimento si fosse esaurito. Era in realtà un fiume carsico, che si era semplicemente interrato per un tratto, e poi è riemerso. Con una differenza, però, e notevole rispetto all'andamento delle acque della venerata montagna: nel riaffiorare il ruscello è diventato un grande torrente che si dirama in mille rivoli. Un salto di dimensioni e di qualità politica: nel movimento che riconosce come controparte decisiva del proprio operare le grandi istituzioni economiche internazionali ci sono soggetti nuovi e impensabili compagni di strada negli anni '80, come i sindacati e le istituzioni religiose; c'è un intreccio reale con pezzi delle stesse istituzioni e dunque un impatto e un'eco politico straordinario. C'è, infine, una continuità di appuntamenti di protesta che non lascia tregua e impone ai media di dare ormai visibilità costante ai summit ufficiali, prima un po' clandestini, così come ai contro-summit di massa che puntualmente li accompagnano.
Seattle, ormai mitica capitale del nuovo movimento, è stata il luogo di partenza di una multicolorata carovana, intenzionata a percorrere il mondo. Ora è giunta a Washington, dove si svolge l'annuale incontro di ministri delle finanze e di banchieri, qui convenuti per il vertice del Fmi e della Bm, preceduta dall'accreditamento di 1700 giornalisti, affannati a correre dietro alla veglia a lume di candele promossa dal sindacato dei siderurgici, alle preghiere collettivamente recitate nelle chiese per le "vittime" delle due illustri istituzioni, ai "teach in", alla catena umana attorno al Campidoglio, ai pranzi elitari e a quelli popolari, tutte cose promosse da un impressionante numero di Ong di cui si è già pubblicato il "who is who". E che per le tante manifestazioni nella capitale americana hanno persino saputo allestire cucine e cliniche da campo e una rete di collegamenti (in bicicletta "non contribuiremo al guasto dell'ambiente motorizzandoci") per recapitare pasti e comunicazioni.
Anche in Italia un salto di qualità c'è stato con l'intesa per una comune e permanente azione per combattere gli effetti perversi della globalizzazione sancita un mese fa fra Lega Ambiente, Cgil, Cisl, Uil, Acli, Agesci, Arci, Cocis, Ics, Uisp. Ed è la prima volta che un patto fra soggetti così diversi viene stabilito e su una tematica così complessa. C'è solo da augurarsi che l'ampiezza del fronte, e la sua interna varietà, anziché dar luogo a un comune denominatore troppo minimo, a incapsulare ognuno dentro un generico moderatismo, serva a attivare una dialettica reale, un confronto coraggioso e scoperto fra interessi e culture diversi.
Negli Stati Uniti questo non è ancora riuscito (di più in Francia) e infatti anche in questi giorni emergono contraddizioni vistose nelle stesso movimento che occupa le strade di Washington. E però questa contraddittorietà politica è lì riscattata da una comune tensione etica, attorno ai valori della contestazione, e da un diffuso radicalismo nei comportamenti, che porta in strada decine di migliaia di persone, colletti blu e bianchi; e tonache. In Italia non è ancora accaduto.
Complessità, contraddizioni, necessità di approfondimenti per contrastare con efficacia il contrattacco già partito - dopo una fase di sbigottita paralisi - da parte dell'establishment internazionale. (Vedi anche l'articolo di Dornbush su Repubblica di sabato).
Vorrei enumerare schematicamente alcuni punti di riflessione necessaria, premessa per una comune e combattiva agenda di inizio millennio.
1) E' vero che nel 1999 le ex tigri asiatiche, malconce per i colpi della crisi subita nel '97-98, conoscono una significativa ripresa; e così alcuni paesi dell'America latina e dell'est europeo. E però questo è dovuto anche a qualche segno di saggezza intervenuto in quei governi che, finalmente hanno cominciato a rendersi conto degli effetti perversi della selvaggia fluttuazione dei capitali internazionali. Qualche misura per contenere i comportamenti più speculativi è stata presa, ma se non ci fosse stato il potente movimento di denuncia contro le istituzioni internazionali si può ben dire che queste avrebbero continuato a decantare la bellezza della più dissennata e deregolata liberalizzazione.
In secondo luogo il valore generale delle cifre dei "successi" del '99 nei paesi emergenti o appena emersi va assai ridimensionato: la crescita riguarda pur sempre una sottile fascia di regioni e di ceti sociali, che convive con accresciuti drammatici degradi. Ancor più falsificante è il dato relativo alle loro assai trionfalmente decantate esportazioni: quanto resta nei paesi d'origine del prezzo pagato in Occidente per quei prodotti "made" nel terzo mondo è poco o nulla, una volta detratta la quota della commercializzazione, delle assicurazioni, dei trasporti, delle materie prime non locali, ecc. In realtà quanto è in atto è un gigantesco trasferimento di reddito: nel secolo XIX il cotone si produceva in India ed era Londra che si impadroniva del valore aggiunto della manifattura tessile, oggi la manifattura è nella periferia e il valore aggiunto nel terziario che globalizza il prodotto, e questo è nelle mani delle attuali metropoli.
2)Il più spinoso dei problemi, esploso ora con la protesta dell'Afl-Cio contro l'ingresso della Cina nell'Omc. Può darsi che per il popolo cinese sia meglio restarne fuori, ma non spetta a quello americano - nemmeno alla sua parte migliore - deciderlo. Se lo slogan diventa "no alla Cina" in nome del non rispetto in quel Paese dei diritti democratici e degli standard ecologici, la solidarietà resta pelosa, puzza di protezione del proprio posto di lavoro punto e basta. Non si portano accordi sindacali dal di fuori, la globalizzazione proletaria (pardon, scusate la parola retrò) non esiste, l'internazionalismo era reciproco appoggio e quel reciproco, quella particella "inter" che presuppone due soggetti diversi da connettere, erano essenziali a far capire che il vero aiuto consisteva soprattutto in un aiuto ad esprimersi autonomamente, non nell'esprimersi al posto degli altri. A Seattle dei passi avanti nel dialogo fra lavoratori del nord e del sud si erano fatti, a Washington mi pare si sia invece andati indietro. Nemmeno il governo cinese, per altro, intende entrare senza condizioni nella Omc, e così molti altri paesi in via di sviluppo, e sono gli Usa e l'Ue a volergli invece imporre un catastrofico tutto o niente, e cioè: o esclusione dal commercio mondiale o annullamento di qualsiasi regola nazionale intesa a proteggere lo sviluppo di economie assai fragili.
In particolare la Cina vuole sottrarsi, entrando nell'Omc, al ricatto dell'attuale verifica annuale di Washington, che apre o chiude il proprio mercato all'export cinese non proprio in nome della democrazia. Un dialogo non demagogico o generico su questi temi con gli interessati, e poi un'iniziativa appropriata, potrebbe rappresentare una specificità del movimento italiano.
3) Riformare o abbattere Fmi, Bm e Omc? Il dilemma mi sembra francamente di lana caprina. E' evidente che occorrono nuove regole internazionali e non l'anarchia che giova solo al più forte e che per dar loro vita è necessario ripensare al mondo di Bretton Woods. Quanto oggi è all'ordine del giorno è questo ripensamento e un nuovo progetto strategico che conquisti egemonia.
Per ora su questi temi, nonostante il dato nuovo e positivo sia l'estendersi - anche a livello teorico - dei dubbi sul dominante integralismo globalizzatorio, si è proceduti poco. Ecco una tematica su cui l'intreccio fra movimento di lotta - indispensabile - intellettuali e istituzioni è vitale. Da fare, insomma, c'è molto. Nel '99, grazie a Seattle, si sono fatti passi da gigante. Ma - come si diceva una volta - ce n'est q'un début.

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