La lezione di stile del duo Hall & Holland

LORRAI MARCELLO

RASSEGNE BERGAMO JAZZ

La lezione di stile del duo Hall & Holland

Al teatro Donizetti piacevoli sorprese anche da Masada di Zorn

- MARCELLO LORRAI - BERGAMO

C alvizie, baffetti bianchi, gilet: con una cravatta abbastanza vistosa che rivela una idea di gusto piuttosto americana, Jim Hall è un distinto settantenne dai modi invariabilmente garbati. Suona esattamente com'è fuori dal palco: signorile, pacato, non alza la voce né conversando né con chitarra elettrica. Ma nella sua inclinazione a sottrarre, tenendo il volume molto prossimo a quello di uno strumento acustico e utilizzando parsimoniosamente le note, non c'è estetismo, calligrafismo, intento anestetizzante. Nella sua sofisticata economia di mezzi si può anzi cogliere un'audacia, un anticonformismo che si esprimono senza enfasi, senza retorica. Alla sua maniera per niente ostentata, nel jazz moderno Jim Hall è stato in effetti un musicista d'avanguardia.

Al debutto europeo

Già ospite col proprio trio dell'edizione '93 di Bergamo Jazz, Hall è questa volta in cartellone in duo con Dave Holland, che - spiega lo stesso contrabbassista - ha sempre visto in Hall un punto di riferimento. La loro collaborazione ha preso il via un paio d'anni fa, hanno tenuto alcuni concerti negli Stati uniti, non hanno ancora inciso e per il momento non hanno in vista dischi anche se si intuisce che ne inciderebbero uno volentieri, e questo di Bergamo rappresenta il loro debutto europeo.

Salvo un paio di standard, come il My Funny Valentine proposto come bis, il repertorio è originale ed equamente ripartito fra l'uno e l'altro: due dei brani firmati da Hall sono dedicati a chitarristi, Bill Frisell e Jimmy Raney, un altro è un calypso che Hall interpreta sfuggendo magistralmente ai cliché. Chitarra e contrabbasso si passano amabilmente il ruolo di solista e di accompagnamento in un dialogo cordiale che è una virtuosistica lezione di stile. Certo per un incontro del genere alla concentrazione dei musicisti e degli ascoltatori giova una cornice calda e ordinata come quella del Teatro Donizetti: anche in questo si verifica l'utilità, rispetto all'inflazione di rassegne della stagione balneare, di un festival invernale. Estinte da tempo storiche rassegne come Milano e Bologna, Bergamo Jazz nel decennio scorso è arrivata a colmare un vuoto. E, ripresa dopo tre lustri di pausa la gloriosa tradizione della Rassegna Internazionale del Jazz, anno dopo anno è riuscita non a caso a ricreare un'abitudine e a consolidare dell'interesse: vedendosi premiata quest'anno da oltre mille spettatori per ciascuna delle tre le serate, cioé dal teatro sempre pressoché esaurito.

Poi un altro duo, quello del navigatissimo Kenny Barron al piano e della più giovane Regina Carter al violino. La Carter ha recentemente pubblicato un album vivace e ben accolto, Rhythms of the Hearth, ed è uno dei personaggi del momento in un panorama jazzistico che di nuovi personaggi ha spasmodico bisogno.

Rispetto all'articolazione di situazioni del disco, un duo come questo mette tuttavia a nudo i limiti della violinista: soprattutto il suono alquanto secco e un po' di mancanza di poesia. Altro duo quello del ventisettenne Fabrizio Bosso, "nuovo talento italiano" nel referendum '99 del mensile Musica Jazz, trombettista ancora acerbo ma da incoraggiare, e del pianista Paolo Di Sabatino. Parzialmente deludente il Charlie Haden Quartet West, che il contrabbassista guida da un quindicennio. Afflitto da un serio disturbo all'udito, Haden da tempo si esibisce tenendosi dietro ad uno schermo per stare il più possibile al riparo dai suoni per lui più problematici, e al Donizetti è rimasto quindi lontano dagli altri, sul fondo del palco. Ma a parte questo inconveniente di non poco conto, Haden è apparso anche piuttosto assente, con diversi soli precari e sconnessi. Nell'insieme la linea musicale del gruppo non è poi particolarmente eccitante: al piano Alan Broadbent le aggiunge un tocco di leziosaggine.

In compenso è stata una consolazione seguire il fraseggio morbido e fluido del tenore di Ernie Watts (il suo curriculum è ricco di collaborazioni extrajazzistiche, fra l'altro con Zappa) e il drumming meravigliosamente nitido e sottile del settantenne Lawrence Marable. Così bene da risultare persino appassionanti, malgrado una musica attardata sull'hard bop e sul soul jazz, hanno suonato il sax alto e soprano Stefano Di Battista, e il suo quintetto italo-francese formato da Flavio Boltro alla tromba, Eric Legnini al piano, Rosario Bonaccorso al contrabbasso e Benjamin Hencocq alla batteria. Anche Masada di John Zorn si dedica ad una musica la cui matrice risale a diversi decenni fa, e va ricercata soprattutto negli storici quartetti colemaniani del '59-60, ma la rivive con una cifra fortemente originale, anch'essa del resto a sua volta già storicizzabile: e cioé con una certa sensibilità molto anni ottanta che proprio Zorn ha contribuito prepotentemente a definire.

L'esplicito debito colemaniano della musica nel suo complesso e del solismo di Zorn è stato questa volta minore che in altre occasioni, e agli stilemi alla Ornette il sax alto ha in genere preferito fraseggi più affilati e nevrastenici. Musica allo stesso tempo godibilissima e stimolante, e come sempre uno più bravo dell'altro Zorn, Dave Douglas alla tromba, Greg Cohen al contrabbasso, e Joey Baron che alla batteria ha fatto faville.

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