A BERLINO, IL "TOTAL MUSIC MEETING", ALLA SUA TRENTESIMA EDIZIONE
- MARCELLO LORRAI - BERLINO
O ltre a quello di cui tutti in questi giorni parlano, c'è un altro muro che, con un crollo certo meno fragoroso, è caduto a Berlino anni orsono: il muro tra il festival del jazz abitualmente ospitato dalla città in autunno e il Total Music Meeting che nel novembre del fatidico 1968 fu autorganizzato da una pattuglia di agguerriti improvvisatori radicali europei proprio in feroce polemica con il Jazz Tage, la rassegna istituzionale. Superate senza abiure le trenta edizioni, il Total Music Meeting non si presenta da tempo però più come un controfestival, e convive senza attriti con la manifestazione ufficiale: considerato come complementare, il suo cartellone è accolto anche nel programma di sala di quello che oggi ha il nome di "Jazz Fest". Se non ha perso affatto la guerra fredda, a ben vedere il Total Music Meeting sta oggi forse vincendo la coesistenza pacifica.
Anche perché può contare su una quinta colonna di tutto rispetto: scorrendo il catalogo della Free Music Production, l'etichetta nata nel '69 sull'onda del movimento musicale di cui il primo Total Music Meeting (che la Fmp si è poi incaricata di organizzare) era stato una delle espressioni, ecco che ci si imbatte nel nome del trombonista Albert Mangelsdorff, figura sufficientemente prestigiosa da aver potuto nel '95 diventare direttore artistico del "Jazz Fest". Da allora la rassegna ufficiale ha inglobato alcune proposte che potrebbero trovare posto al Total Music Meeting.
Nell'arco di cinque serate, il Tmm si è snodato con la coerenza e il rigore abituali attraverso otto proposte, la maggior parte delle quali ha avuto l'agio di due set a disposizione. Pubblico certo non di massa: la sala del Podewill tiene meno di 200 posti a sedere, sufficienti per gli spettatori che anche un personaggio del prestigio di Cecil Taylor raccoglie in una città di alcuni milioni di abitanti e culturalmente sensibile come Berlino. Se si fosse fatta delle illusioni, la Fmp avrebbe abbandonato da un pezzo il proprio certosino lavoro a favore di una musica di minoranza come quella improvvisata. Neppure il "Jazz Fest" richiama poi un pubblico davvero oceanico.
Di casa da 15 anni alle rassegne della Fmp, Taylor è tornato nella città tedesca con una formazione insolita: già archiviato l'eccellente quintetto europeo con cui a febbraio lo si era ascoltato a Bergamo, di quel gruppo ha conservato solo Tristan Honsinger al violoncello, per prodursi in un quartetto con Francky Douglas alla chitarra e Andrew Cyrille alla batteria. La presenza di una chitarra elettrica in mezzo secolo di musica del pianista neroamericano è rara: in questo caso le è affidato un ruolo di distacco e commento ironici, anche questo piuttosto singolare per Taylor. Illustre sconosciuto, Douglas è originario di Curaçao, vive ad Amsterdam, non è un musicista di jazz, ma è entrato in contatto con Taylor attraverso Honsinger e Sunny Murray nell'88 e da allora è stato chiamato a lavorare col pianista in diverse occasioni. Cyrille rappresenta invece tutto un pezzo di storia della musica di Taylor, ed è uno dei batteristi a lui più congeniali: non suonavano più assieme da tempo ma hanno subito riscoperto una profonda intesa e la rimpatriata berlinese potrebbe preludere ad una ripresa di collaborazione. Con la chitarra di Douglas a Berlino la musica di Taylor si è lasciata andare ad un divertito teatro, nel secondo set con un effetto un po' troppo dispersivo sulla musica: ma pur sempre una testimonianza della vitalità, a settant'anni suonati, di uno dei pochi "grandi vecchi" del jazz.
In ogni caso il deciso drumming di Cyrille, i suoi vigorosi dialoghi ai timpani con la tastiera di Taylor e i finissimi passaggi in cui il pianoforte si è trovato solo col violoncello hanno offerto una sostanza musicale che non è di tutti i giorni. Se Taylor, complice soprattutto proprio la Fmp, solidarizza volentieri con musicisti europei, il sassofonista tedesco Peter Brotzmann, improvvisatore della prima ora, uno dei contestatori del Total Music Meeting del '68, da tempo ama molto il sostegno di bassisti e batteristi neroamericani. In effetti l'attrazione reciproca fra le punte più radicali della free music di una sponda e dell'altra dell'Atlantico negli ultimi lustri è andata crescendo, in un processo di lento superamento della relativa separazione fra identità diverse. Il quartetto Die Like A Dog, che ha suonato al Total Music Meeting, con William Parker al contrabbasso, Hamid Drake alla batteria e il giapponese Toshinori Kondo alla tromba, è in questo senso un "must".
Assurto ormai a personaggio di culto per molti improvvisatori americani, Brotzmann al "Jazz Fest" ha avuto l'opportunità di far ascoltare il suo Chicago Tentet, nel quale militano rappresentanti di una nuova generazione di improvvisatori chicagoani, come i sassofonisti Mars Williams, Ken Vandermark e Mats Gustafsson: giovani bianchi che fanno tesoro contemporaneamente delle lezioni della gloriosa "scuola" di Chicago, prevalentemente nera, dell'avantgarde bianca di uno Zorn, e degli improvvisatori radicali europei.