ARTE INCONTRI
- ELENA DEL DRAGO -
C rediamo alla sua cabala personalissima: l'11-11-1911 nasce in quel di Santiago del Cile da famiglia di origine basca, e guardiamo a questi 88 anni del 900 popolati dalle metamorfosi, i personaggi e le provocazioni di Sebastian Echaurren Matta.
L'inizio della storia è nota: camminando venticinquenne per le vie di Parigi ("è sempre passeggiando che si deve riflettere, seduti si ha la tendenza a cagare idee, ma camminando è un'altra cosa"), è attirato da un numero dei Cahiers D'Arts dedicato all'Oggetto, all'interno un lungo articolo su Duchamp illustrato da Gabrielle Buffet-Picabia: "Non leggo mai, rubacchio qua e là, e l'ho letto. E' stata la rivelazione: era dunque possibile dipingere il cambiamento". Inizia a disegnare con furore, vive la continua scoperta della Parigi anni 30, ancora centro della scena artistica mondiale: addetto al Padiglione spagnolo dell'Esposizione Internazionale del 1937, conosce Picasso mentre prepara Guernica.
Poi arriva l'incontro con l'officiante di tutti i riti André Breton, che decide dopo aver guardato pochi disegni: Matta era surrealista. "Non sapevo neppure quello che voleva dire", commenterà l'interessato più tardi. Così, adepto quasi involontario, si ritrova a condividere i destini di questo eterogeneo gruppo di artisti fino all'immediato avvicinarsi della guerra, ma spinto dal consiglio di Duchamp, salpa già nel 1939 alla volta di New York sulla stessa nave di Yves Tanguy. Per gli altri iniziati la strada fu più lunga: Breton attese la concessione del visto durante un lungo inverno in una villa a Marsiglia, presto denominata Villa esper-visa, insieme a sua moglie ballerina acquatica, a Wilfredo Lam giovane pittore cubano e a Pierre Mabille che aveva partecipato alla Rivoluzione d'ottobre accanto a Lenin; Masson era in un villaggio a pochi chilometri, Montredon, e tutti riuscirono ad imbarcarsi sulla "Capitan Paul Le merle" che faceva scalo a Martinica. Della difficile traversata rimane un dettagliato racconto negli appunti di un altro illustre viaggiatore: Claude Levy Strauss.
Per Max Ernst, invece, ebreo oltre che artista "degenerato", la fuga fu ancora più difficoltosa: scappato da un campo di internamento in un convoglio insieme ad altri 2500 passeggeri, riuscì a raggiungere Marsiglia dove la futura moglie Peggy Guggenheim gli versò duemila dollari in cambio di un gran numero di tele e gli diede appuntamento a Lisbona.
Al confine tra la Francia e la Spagna il passaporto gli viene confiscato e i bagagli controllati con cura. C'erano dipinti arrotolati di tutte le misure, il capo stazione gli chiede di seguirlo e gli dice: "Io adoro il talento, e voi ne avete molto", gli restituisce il passaporto e lo accompagna ai binari, davanti a due treni. Qui gli spiega: "Il primo va verso la Spagna, il secondo a Pau, la prefettura francese più vicina, fate ben attenzione a non sbagliare treno". Ernst seguì il consiglio che il capostazione non aveva osato dargli direttamente e dopo 10 minuti era in Spagna, in direzione del Portogallo.
Matta nel frattempo si era gettato alla conquista dell'ambiente artistico newyorkese, conosce lo storico dell'arte Meyer Shapiro, il primo mercante dei surrealisti Julien Levy, che ricorda il suo entusiasmo strabiliante, la sua risata "come una pacca sulla spalla" e soprattutto gli artisti suoi coetanei desiderosi di liberarsi tanto del provincialismo americano alla Thomas Hart Benton, quanto di ciò che arrivava dall'Europa, una rigida architettura cubista.
Diventa l'apostolo, ancora una volta casualmente, dell'automatismo, perché era il più giovane, perché Mirò era rimasto in Spagna e Masson non usciva dal suo studio - nel Connecticut - e soprattutto perché era l'unico a parlare correntemente inglese. Furono organizzati sei o sette incontri nel suo studio con Pollock, Motherwell, Baziotes e altri giovani artisti.
Matta parlava di comunicazione e percezione sensoriale, di quelli che chiamava "mondi simultanei", spiegava la "morfologia psicologica", un modo di vivere simultaneamente diversi stati psichici, ma presto Pollock e compagni si resero conto di non avere la minima intenzione di inoltrarsi nelle vie dell'occulto che venivano loro indicate: considerarono presto l'automatismo un modo fisico di gettarsi nella pittura.
Poi, se Matta era interessato ad una profondità, ad una prospettiva atmosferica costruita su verticali ed orizzontali, e questo spazio diventava palcoscenico delle trasformazioni psicologiche delle forme ("La pittura ha un piede nell'architettura e un piede nel sogno") gli altri lavoravano ad una superficie piatta e campita; se dal 1947 quei personaggi antropomorfi che avevano abitato sempre i suoi disegni fanno la loro comparsa anche nelle grandi tele come Le Pelerin du doute o Le temoins de l'univers, gli americani tendevano ad un arte quanto più astratta possibile. Il connubio non poteva durare. Alla fine del 1948 Matta lascia definitivamente New York. E adesso, quando ricorda quel periodo si illumina soltanto per Robert Motherwell: "era un pittore nel senso filosofico", dice.
Dopo un breve viaggio a Macchu Picchu, accompagnato soltanto da un libro di Whitehead regalato proprio da Motherwell, per riconsiderare a distanza tutte le ultime esperienze e cominciare di nuovo, torna in Europa. Si installa a Roma, va a Parigi frequentemente che presto diventerà, insieme a Tarquinia, la sua base, continuando a spostarsi, nomade, dietro a mostre, eventi, passioni. Nel 1963 va per la prima volta a Cuba e ne parla ad una tavola rotonda a proposito di Arte Rivoluzione insieme a Guttuso, Argan, Mario de Micheli durante una sua antologica organizzata a Bologna e dice: "Noi parliamo tanto di questa volontà di cambiare le cose, ma loro che vivono in questa realtà così differente, capiscono veramente l'importanza dell'artista. La funzione dell'artista è di inventare un'umanità; e la parola cultura significa per me immaginazione, cultura dell'immaginazione, è quello che a noi manca di più".
Nel maggio parigino del 1968 partecipa a tutti gli eventi ed espone in una fabbrica occupata dagli operai in sciopero 21 tele della serie L'Espace de L'Espace.
E' con un'opera, Passaggio dalla vita alla morte ovvero Santiago la Moneda, 11 settembre 1973, che lamenta l'assassinio di Salvador Allende, dove è rappresentato il superamento di ogni limite da parte dell'uomo.
Con gli anni Ottanta l'ispirazione arriva da più lontano, dalle origini ("Bisogna essere originari, non originali"), dalle mitologie sumere, greche, etrusche: nel Mediterraneo, si sono incontrate tutte le culture per vie diverse. Nel suo monastero ristrutturato di Tarquinia, nel cuore dell'Etruria, ho avuto la fortuna di conoscerlo.
Ormai le mostre sono incalcolabili, dall'America del Sud al Giappone, dagli Stati uniti all'Europa. Le sue tele ancora talmente enormi che per dipingerle ha un piccolo elevatore che sale e che scende e lo accompagna fino agli angoli più alti, ma nei corridoi sono attaccati anche quadri di dimensioni più piccole. "Ho sempre cercato di guardare sotto le apparenze delle cose, i bisogni che le facevano nascere, anche in politica, la gente ha voglia di scoprirsi, di avvicinarsi. La cosa più sociale di questo secolo è il calcio, tutti conoscono le regole del gioco e sono valide per tutti. Il piede è il centro di tutto, sa da dove arriva il pallone, ma non sa dove finirà, l'imprevisto: la partita ha sostituito la messa perché lì si deve ripetere a memoria, mentre durante la partita nasce qualcosa di nuovo".
Se gli si parla della Biennale, di un artista, dice "io non so, non la seguo" con un sorriso sornione, "bisogna fregarsene del mercato, delle cose false"; d'altronde aveva già commentato nel 1956 con una bellissima tela intitolata La banale di Venezia.
E il Surrealismo? "Io non sono surrealista, sono interrealista, per entrare nell'anima delle cose". Seduto su una sedia ricavata da una barile di plastica e poi intagliata da lui a mo' di trono, racconta barzellette - "l'unica forma di antropologia possibile dei nostri tempi" - che terminano nella sua risata contagiosa. E ancora, nella sua lingua mista di italiano, inglese, basco, francese, incalza: "bisogna andare dritti all'anima, perché è l'anima che dà la gana, la voglia, anzi quel desiderio pazzo, che ti fa fare le cose, ganar vuol dire vincere..". Poi si fa serio. "Bisogna imparare a trovare la propria armonia, ad abitarla. Ognuno ha la sua e per questo bisogna ritirarsi nel proprio guscio come una tartaruga, una lumaca, e lavorare come un artigiano. Come facevano gli artigiani? Non aspettavano nessuna committenza, lavoravano, poi passava un vicino e comprava quello che avevano appena fatto".