KOSOVO
I primi di ottobre, mentre gli stati europei riuniti a Bari si spartivano i Balcani, dai moli del porto della stessa città, ove sono ancora ammassati i container della missione "Arcobaleno", è partito alla volta di Bar un Fiat Ducato con destinazione Belgrado e Kralijevo con a bordo, oltre a cibo e quaderni per i bimbi dei profughi serbi dal Kosovo, attrezzature elettromedicali e parti di ricambio destinate al reparto di patologia neonatale del policlinico di Belgrado che abbiamo "adottato" sin dai primi giorni dei bombardamenti. Il furgone è rimasto a Kralijevo, 200 chilometri a sud di Belgrado, dono alla locale Croce rossa, per la distribuzione di cibo a circa 10 mila degli oltre 150 mila serbi e rom fuggiti dal Kosovo per sfuggire alla violenza dell'Uck.
La situazione di questi profughi "invisibili", che si aggiungono ai 700 mila già giunti dalla Croazia e dalla Bosnia, è gravissima. Mentre si avvicina l'inverno, l'unica assistenza arriva dalla Croce rossa jugoslava, mentre in Kosovo le agenzie umanitarie (e gli eserciti) si pestano i piedi.
E l'emergenza profughi non fa che aggravare la situazione di tutto il paese, con le infrastrutture civili distrutte, una gravissima carenza di energia e un altissimo inquinamento dei terreni. Il programma di aiuti umanitari, che "Un ponte per..." ha avviato col nome "Un ponte per Belgrado", sin dai primi giorni della guerra, ha permesso, sinora, l'invio di medicinali e presidi sanitari a ospedali jugoslavi per un valore di circa un miliardo. Poca cosa visto che sono gli unici aiuti inviati dall'Italia dal 24 marzo in poi. In quella data, insieme alla concessione delle basi alla Nato, il governo ha infatti deciso di bloccare tutti i progetti di aiuto in corso in Jugoslavia, a cominciare da quelli a sostegno dei profughi dalla Croazia e dalla Bosnia. Oggi, nonostante si continui a morire, l'attenzione dei media è volta solo a fare il tifo per la guerra civile in Serbia e lo stesso movimento contro la guerra sembra svanito. Eppure la guerra contro la popolazione civile continua con l'embargo, e abbiamo già visto in Iraq che l'embargo può uccidere quanto e più delle bombe.
La commissione europea, come il manifesto ha più volte denunciato, sta discutendo un regolamento per impedire la ricostruzione delle infrastrutture civili. E' una misura gravissima, contraria a ogni norma internazionale sui diritti umani, che tuttavia non fa che formalizzare una situazione già in essere di fatto, e anche di diritto. L'embargo è, infatti, già in vigore dal primo maggio per i prodotti petroliferi (reg. 900/99), dal 22 maggio per i voli civili (reg. 1064/99) e dal 15 giugno per gli investimenti e le transazioni finanziarie (reg. 1294/99). Dalla stessa data sono stati congelati i fondi jugoslavi depositati presso le banche europee.
Questa guerra silenziosa meriterebbe la stessa mobilitazione che abbiamo avuto contro i bombardamenti.
Non vorremmo essere stati facili profeti dicendo che la Jugoslavia sarebbe diventata un nuovo Iraq: un'intera popolazione ostaggio della "comunità internazionale", vittima invisibile di un'inaccettabile punizione collettiva, nel disinteresse dei media e, un po', anche nostra.
* presidente di "Un ponte per...
Errata corrige
----------Nell'opinione sulla vicenda della Teksid, pubblicata domenica scorsa, a firma di Pietro Passarino, è saltata una frase all'ottava riga della seconda colonna. Alla fine della frase: "...il reinserimento in Carmagnola nello stabilimento alluminio", va agggiunto: "La conclusione ribalta questa impostazione in quanto 563 dei circa 1000 dipendenti si ricollocheranno in Alluminio a fronte di investimenti che potenzieranno lo stabilimento di Carmagnola....". Ce ne scusiamo con i lettori e con l'autore dell'articolo.