Sonny Rollins a perdifiato tra Ellington e il calypso

LORRAI MARCELLO

VERONA JAZZ

Sonny Rollins a perdifiato tra Ellington e il calypso

Le improvvisazioni magmatiche del sassofonista afroamericano

- MARCELLO LORRAI - VERONA

N ell'iconografia consolidata del jazz, il sassofonista (e non solo lui) si curva, si piega, si contorce spremendo, sembrerebbe con fatica, addirittura con sofferenza, una sostanza musicale dal proprio strumento: questo travaglio - magari solo esteriore- è una convenzione, a cui molte delle volte non corrisponde un investimento tanto gravoso. Così che se poi si ha l'occasione di ritrovarsi di fronte dopo parecchio tempo un Sonny Rollins, si può anche avere l'impressione che ci sia qualcosa che non quadra, di uno scarto tra quello che si vede e quello che si sente: a maggior ragione se si hanno presenti le sessantanove primavere che il sassofonista ha da poco totalizzato. Ben piantato sulle gambe, con la solidità e il portamento eretto e imponente anche se dinoccolato di un giocatore di pallacanestro, Rollins soffia nello strumento, alza al cielo il sax e lo sbandiera a destra e a sinistra senza apparente sforzo. Tanto che il flusso della sua improvvisazione sembra dotato di vita propria, che la sua irrefrenabile eloquenza sembra staccata da quell'uomo che sul palco suona muovendo il sax come un giocattolino ma per il resto senza scomporsi troppo. Guardando un Rollins così rilassato mentre le note sgorgano impetuose, si può avere a tratti la sensazione di avere di fronte un musicista che suona in playback senza riuscire a sintonizzare e ad adeguare mimica e movimenti alla musica che si ascolta.

Come prestigiosa coda di Verona Jazz, Sonny Rollins è apparso al palasport scaligero per un'unica data italiana. La mediocrità dei complessi di cui il grande sassofonista si circonda ormai da tanto tempo è proverbiale, e il gruppo presentato in questa occasione non è stato certo dei peggiori. Appena salito sul palco Rollins ha subito agguantato l'attenzione del pubblico e non ha più mollato la presa con dieci strabilianti minuti di improvvisazione a perdifiato, veloce, gioiosa, esuberante. Dopo i venti minuti del primo brano, una pezzatura mantenuta un po' più un po' meno per il resto della serata, Rollins è passato ad affrontare allegramente un calypso. Poi ha scalato di marcia ed è passato ad un registro più sensuale e virile, facendo sfoggio di un bellissimo, integro colore strumentale, per rendere omaggio a Duke Ellington con In a sentimental mood. Dopo un'ora di concerto Rollins si è concesso una meritata mezzoretta di intervallo, per poi tornare nel secondo tempo di nuovo ad un calypso, animato da un'altra delle sue improvvisazioni stordenti nel loro procedere senza respiro, quindi di nuovo su Ellington con Solitude. Per passare poi all'inevitabile Don't Stop The Carnival a mo' di sigla di chiusura. Barba bianca, occhiali scuri e stile davecchio gentiluomo, con l'aria, dopo due ore e venti di esibizione, di non volersene andare tanto presto e di volersi godere fino in fondo l'affetto del pubblico che era corso a stringersi intorno al palco. Rispondendo agli applausi, giustamente, col pugno alzato come un'atleta che si compiace della propria impresa.

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