La paura dell'"effetto domino"

PESCALI PIERGIORGIO

INDONESIA MOVIMENTI AUTONOMISTI

La paura dell'"effetto domino"

I militari temono che l'esempio timorese alimenti altre lotte indipendentiste

- PIERGIORGIO PESCALI -

L a nazione che nel 1945 Sukarno riscattò dal colonialismo olandese, è un immenso arcipelago di 14.000 isole sparse lungo un arco di 5.000 chilometri ed abitate da 300 etnie con usi, costumi, lingue, religioni differenti tra loro.

I padri dell'Indonesia sapevano che la lotta indipendentista - combattuta tra l'altro principalmente a Giava - poteva servire da collante solo per le generazioni immediatamente seguenti alla loro; poi, la memoria storica, sarebbe lentamente, ma inesorabilmente, caduta nell'oblo. Così, Sukarno diede al popolo un altro ideale su cui fondare l'unità nazionale: la Bahasa Indonesia, la lingua insegnata in tutte le scuole dell'enorme arcipelago.

Suharto, da parte sua, lanciò l'Islam e la transmigrasi: milioni di giavanesi, sulawesiani, maduresi, furono incentivati a migrare in altre isole, dove il governo offriva loro terra, casa e lavoro. In questo modo si sperava di ottenere un doppio vantaggio: allentare la pressione demografica sull'isola di Giava, dove su appena 132.000 kmq si accalca la metà della popolazione indonesiana e "esportare" l'idea dell'Indonesia come unica nazione. Alla base di questa politica ci sono state le Forze armate, presenti in ogni provincia per controllare la popolazione e prevenire eventuali sommosse.

Questa ingombrante presenza, statale venne sopportata dai locali, in cambio di un relativo progresso economico, sino al 1997, quando una dirompente crisi ha aperto le falle di un sistema creato su misura per l'ingordigia della famiglia presidenziale. Assieme al crollo della produzione, l'Indonesia si è trovata a far fronte, improvvisamente e per nulla preparata, alle aspirazioni di autonomia per troppo tempo represse con la forza delle armi.

Nelle Molucche migliaia di sulawesiani musulmani sono stati costretti a fuggire dalle violenze degli ambonesi cristiani, a Kalimantan, i Dahyaki cristiani si sono ribellati contro i maduresi musulmani, nel Sud Sulawesi e nella parte meridionale di Sumatra sono rinati i movimenti autonomisti. In questa situazione, già allarmante per i nazionalisti, si èvenuto a inserire il famoso discorso del presidente Habibie del 27 gennaio 1999, che apriva a Timor Est le porte dell'indipendenza.

Subito la preoccupazione principale dei militari si è rivolta alle lotte secessioniste che, parallelamente ma con importanti differenze rispetto a quella timorese, si consumano a Aceh e a Irian Jaya, la parte occidentale della grande isola Papua (la parte orientale è lo stato indipendente della Papua-Nuova Guinea). L'indipendenza di Timor Est potrebbe servire da carburante per una nuova fiammata separatista per le zone calde della nazione? Si chiedono allarmati i militari.

Quasi tutti gli analisti sono concordi nel riconoscere che la storia e lo sviluppo dei tre movimenti di liberazione, il Fretilin, l'Aceh Merdeka e l'Organisasi Papua Merdeka, hanno seguito percorsi indipendenti tra loro; il paventato pericolo di un nuovo "effetto domino" indonesiano non sussisterebbe. Occorre poi considerare la specificità delle singole rivendicazioni e il contesto di base popolare su cui poggiano: se a Timor Est il sentimento indipendentista trova radici in una storia coloniale e religiosa differente da quella indonesiana, Irian Jaya e Aceh, in modo particolare, dividono con l'arcipelago secoli di dominazione olandese.

Questo comune denominatore rappresenta un collante non indifferente per la popolazione. In più, Aceh rappresenta una sorta di territorio sacro per i musulmani d'Indonesia: da qui il nome di Allah è riecheggiato verso oriente e se le organizzazioni islamiche come il Mahummadiyah e il Nahdlatul Ulama, vedono favorevolmente il distacco di un territorio cattolico dalla nazione musulmana, non sarebbero dispostia fare altrettanto con Aceh.

La scorsa estate, il Ministro della Difesa Wiranto ha chiesto pubblicamente scusa agli acehnesi per il modo con cui i militari si sono comportati nei loro confronti. Il gesto non è bastato, immediatamente dopo il ritiro della legge marziale nel territorio, alla popolazione, che ha assaltato il centro di detenzione di GuempangMinyek e ucciso diversi collaborazionisti. Secondo Giacarta il problema di Aceh è più economico che ideologico: "L'obiettivo del prossimo secolo sarà costruire l'interdipendenza tra gli indonesiani. Dobbiamo chiudere per sempre con le strategie militari, per perseguire quelle economiche", ha detto Habibie in un'intervista rilasciata poco prima dell'annuncio del referendum timorese. Meno critica (dal punto di vista indonesiano), la situazione a Irian Jaya, dove l'asperità del territorio e la dispersione della popolazione, rendono difficile l'organizzazione di un movimento di guerriglia realmente efficace.

Ultimamente anche Toni Beanal, il leader storico del movimento indipendentista e ambientalista, a lungo spina nel fianco delle autorità indonesiane e della compagnia mineraria Freeport McMoRan Copper & Co, sta considerando la possibilità di accettare un posto offertogli proprio dalla Freeport. Se i suoi compagni d'arme già gridano al tradimento, i militari del Tni vedono con preoccupazione un possibile coinvolgimento di Beanal nella multinazionale, che consentirebbe di dare alla voce indipendentista di Irian Jaya lo spazio che ha sempre cercato, ma che gli è sempre stato negato: un canale privilegiato internazionale grazie al quale propagandare la causa secessionista. Miracoli della globalizzazione.

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