TIMOR/PROFUGHI
- PIERGIORGIO PESCALI - DI RITORNO DA DILI
L
Andrea, la ragazza australiana dell'Unv (United nation
volunteers), scuote la testa e si siede su una pietra senza
proferire parola. Il silenzio che ci circonda rende l'atmosfera
angosciante come quel giorno in cui le milizie hanno attaccato
questa manciata di casupole, obbligando i loro abitanti ad
ingrossare le fila dei rifugiati che vagano senza meta per i
distretti occidentali di Timor Est. Jorge, l'autista timorese che
accompagna Andrea a Lolotoi, dove resterà nell'ufficio Unamet,
accende una sigaretta. Lui è stato fortunato, uno dei pochi:
viveva nel villaggio di Laulara, nel distretto di Aileu, 20 km a
sud di Dili. Una notte sono giunti quelli del Aileu Pecinta
Integrasi (Aileu Ama l'Integrazione), radunando tutta la
popolazione e costringendo i più giovani a seguirli. Poi hanno
separato 5 persone, 4 uomini e una donna, che avevano fatto parte
del Falintil, il movimento di guerriglia pro-indipendenza.
Nessuno li ha più rivisti e nessuno nutre alcuna speranza di
poterli riabbracciare. Jorge e la sua famiglia, moglie e 4 figli
dai 2 ai 7 anni, appena hanno potuto sono fuggiti attraversando
la foresta fino a Dili, dopo aver camminato, di notte, per 12
ore. Qui, un parente lo ha introdotto all'Unamet, riuscendo a
fargli ottenere un posto come autista. Non sono stati fortunati,
invece, altre decine di migliaia di timoresi che, terrorizzati
dalle milizie, sono sotto il loro controllo in campi di fortuna.
Il governo indonesiano parla di 25.000 rifugiati interni,
l'Unamet di 60.000, la Caritas di 70-80.000, il 10% dell'intera
popolazione. Inutile, come fanno in molti, cercare paragoni con
Auschwitz o con il Kosovo; tempi e percorsi sono differenti.
Questo non è uno sterminio etnico, ma politico; non c'entra il
passaporto genetico, bensì quello ideologico. Poco importa se
nelle vene corre lo stesso sangue: Joao Tavares, il capo delle
milizie, ha un nipote nelle file del Falintil, ma questo non lo
esime dal pronunciare parole dure: "non esiterei ad ucciderlo con
le mie stesse mani, se questo potesse aiutare la nostra causa".
Ma i "rifugiati interni" muoioni non solo per machete, muoiono di
stenti e miseria."Solo nel campo profughi di Sare sono morte più
di cento persone da aprile a luglio per malnutrizione e malattie.
Malaria, TBC, diarrea, colpiscono vecchi e bambini, le mamme non
hanno più latte e i neonati non ancora svezzati muoiono
lentamente, senza neppure piangere; non ne hanno la forza." mi
dice Jose Luis Guterres della Human rights and justice
foundation. Molti dei rifugiati timoresi hanno cercato riparo
nelle chiese sperando che i miliziani, la maggior parte dei quali
sono cattolici come la popolazione timorese, rispettino la
sacralità del luogo. Si cerca di non ricordare che quattro mesi
fa a Liquisa, 2.000 persone sono state attaccate proprio nella
chiesa parrocchiale da un gruppo del Besi Merah Putih (Ferro
Rosso e Bianco), che ha anche massacrato una trentina di persone.