Parlano i capi delle milizie: non ci fermeremo

PESCALI PIERGIORGIO

REPORTAGE

Parlano i capi delle milizie: non ci fermeremo

- PIERGIORGIO PESCALI - DI RITORNO DA DILI

A Maliana, Joao Tavares ha appena terminato di parlare di fronte a una folla esagitata. Scende dal palco e, tra applausi e strette di mano, mi invita a seguirlo nella sua casa. "Vede, nonostante voi vi ostiniate a dipingermi come un assassino e un mostro, sono amato dai miei concittadini". Le strade della cittadina, di cui Tavares è stato sindaco per quasi vent'anni, sono addobbate di bandiere bianche e rosse e di striscioni inneggianti all'integrazione all'Indonesia. Qui la milizia del Dadurus Merah Putih ha il suo quartier generale. I suoi uomini vengono addestrati in campi appena al di là del confine con Timor ovest, la cui linea di demarcazione corre a pochi chilometri dalla città.

"I timoresi sono indonesiani al cento per cento; lo sono sempre stati e sempre lo saranno. Che senso avrebbe avere una nazione a sé stante? Come potrebbe sopravvivere senza l'aiuto dell'Indonesia? Questo si chiedono i timoresi e a queste domande non trovano risposte. Per questo si sono uniti in movimenti a favore dell'integrazione con l'Indonesia". Secondo Tavares, le violenze di cui si stanno rendendo protagonisti questi "movimenti" non sono che la risultante di provocazioni effettuate ad arte dal Falintil, il gruppo guerrigliero indipendentista che dal 1975, anno dell'invasione indonesiana nel territorio, ha contrastato con le armi l'esercito di Jakarta.

"Le milizie altro non sono che dei 'Pam Swakarsa', gruppi di civili incaricati di mantenere l'ordine e la sicurezza nei villaggi. In ogni distretto indonesiano ci sono dei 'Pam Swakarsa', eppure nessuno si scandalizza". Ma basta recarsi a Liquisa, pochi chilometri a nord di Maliana, per sconfessare le parole di Tavares. Questa è l'area dove opera la milizia più attiva di tutto Timor est: il Besi Merah Putih. Il suo nome, tradotto dall'indonesiano, significa "Ferro rosso e bianco" (sono i colori indonesiani) e rispecchia fedelmente la ferocia e la determinazione dei suoi membri. E' stato il Bmp che ha compiuto la strage del 6 aprile, durante la quale duemila persone rifugiate nella chiesa del paese sono state costrette a uscire con un lancio di gas lacrimogeni. Ne è seguita una carneficina, che ha lasciato sul sagrato una cinquantina di persone. "Membri del Falintil", è stata la giustificazione dei miliziani. "Pacifici contadini, rifugiatisi a Liquisa con le loro famiglie per fuggire alla violenza delle bande armate pro-integrazioniste", è stata la replica delle organizzazioni umanitarie.

Monsignor Belo, il vescovo di Dili Premio Nobel per la pace, quando si è recato sul luogo del misfatto, ha esclamato di vergognarsi di essere indonesiano. Avrebbe avuto altre occasioni per vergognarsi: due mesi più tardi, il Bmp ha attaccato un convoglio umanitario, sulla via del ritorno a Dili dopo aver consegnato cibo, medicinali e indumenti a migliaia di profughi nei campi di Sare. La polizia, anziché arrestare gli aggressori, ha rinchiuso in prigione alcuni membri delle Ong organizzatrici della missione, con l'accusa di trasportare armi.

"Perché i giornalisti e l'Unamet non parlano degli attacchi condotti dagli indipendentisti alle popolazioni civili?", chiede Eurico Guterres, il leader politico delle milizie e lui stesso a capo dell'Aitarak (La Spina), il gruppo paramilitare che opera a Dili e che è uno dei maggiori responsabili delle mattanze avvenute dopo che sono stati resi noti i risultati del referendum. E' lui che ha aizzato i suoi seguaci ad attaccare le case dei personaggi indipendentisti più noti: "Scovateli ed uccideteli!", ha detto poco prima che un gruppo di miliziani assaltasse la casa di Manuel Carrascalao, uccidendo suo figlio Manuelito assieme a una ventina di suoi amici. Sempre lui aveva chiamato i suoi seguaci a una manifestazione nella capitale, lo scorso 17 aprile, chiamata "Invadi Dili", durante la quale li aveva incitati a catturare e uccidere i sostenitori dell'integrazione.

"Non mi pento di ciò che ho fatto", dice nella sede dell'Aitarak, "se ne avessi la possibilità ucciderei io stesso il portavoce dell'Unamet, David Wimhurst, reo di raccontare fandonie e di porci in cattiva luce di fronte al mondo intero". Poi, ripensandoci, conclude: "Ma a noi non importa nulla di ciò che pensa il mondo. Vogliamo restare con l'Indonesia e ci resteremo, anche a costo di scatenare una guerra".

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