Finale di partita. E ora con chi giochiamo?

CACCIARI PAOLO

SINISTRA

Finale di partita. E ora con chi giochiamo?

PAOLO CACCIARI

A l voto il 13 giugno sono andati quindici paesi con peculiarità nazionali quantomai evidenti, nonostante l'Europa, nonostante la adesione compatta alla guerra della Nato alla Jugoslavia, nonostante il "pensiero unico" che tutto e tutti omologa. Difficili da decifrare i risultati ottenuti dai vari partiti comunisti e non, che confluiranno nel gruppo confederale della Sinistra unita. Il fatto che in tutta la campagna elettorale la "sinistra antagonista" europea non sia riuscita a produrre una sola iniziativa comune sulla guerra del Kosovo la dice lunga su quanta strada ancora sia necessario percorrere per poter riparlare con qualche credibilità un linguaggio comune in campo internazionale. Mi limito quindi a guardare alle cose di casa nostra prendendo come scenario generale europeo gli unici dati certi: la crisi di consenso delle socialdemocrazie al governo in quasi tutti i paesi europei e l'impennata dell'astensionismo.

Per quanto paradossale possa sembrare, colloco anche la batosta subita dal Prc dentro queste tendenze. Proprio coloro che sono nati per contestare la deriva liberista della sinistra riformista e che hanno fatto del protagonismo delle masse la loro bandiera, sono i più colpiti dalla morte della politica o, se si preferiscono toni più sobri, dalla crisi del funzionamento della politica come regolazione democratica dell'economia e dalla speculare scissione tra politica (ridotta a macchina di governo) e società, ciò che produce passivizzazione, spoliticizzazione delle vecchie classi di riferimento della sinistra.Capisco la delusione. Ci siamo persino illusi di poter trarre qualche vantaggio nella "lotta per l'egemonia" tra le "due sinistre" ed invece scopriamo che non si è verificato alcun meccanico travaso nei flussi che segnano la mobilità elettorale. Amici troppo benevoli avevano preannunciato al Prc "autostrade aperte" dopo l'abbandono di ogni ipotesi riformista da parte dei Ds. A riprova che non funzionano più schemi di interpretazione legati a comportamenti tradizionali, la crisi di una sinistra non avvantaggia l'altra. La crisi della politica coinvolge tutte le sinistre e premia solo l'antipolitica, cioè la destra.

Per quanto il Prc abbia cercato di distinguersi (già l'indomani della cacciata dal governo di Berlusconi e Fini nell'aprile '96) e, infine, di liberarsi dalla presa dell'annegato, la "sinistra liberale" di D'Alema, Shroeder, Blair... ci ha trascinato (tutti) nel vortice della disfatta della sinistra. Non perché il Prc abbia avuto alcuna responsabilità diretta (al contrario delle altre famiglie comuniste: democratici, unitari, italiani) ma proprio perché tutti siamo stati incapaci di impedire che si compisse la sua parabola. Abbiamo fallito in una sfida/promessa che facemmo a noi stessi e agli italiani nel '96. E non sto riferendomi all'analisi dei singoli contenuti delle Finanziarie (se sono state mezze vuote o mezze piene). Non sto pensando ai "risultati concreti", alle attese mancate: le 35 ore, le pensioni, gli ospedali, la scuola... Penso al compimento di una lunga mutazione che avviene non a caso con la conquista del governo (mitico luogo dove si appagherebbe la "volontà di potenza" dei partiti) da parte della sinistra.

La partecipazione dell'Italia (e di tutte le socialdemocrazie europee) alla guerra nei Balcani rappresenta il punto di non ritorno, la fine di un ciclo lungo. Là dove hanno pateticamente balbettato alcune Bicamerali, un fatto compiuto ha risolto ogni problema di riscrittura non della seconda, neppure della prima parte, ma dei principi fondativi stessi della Carta costituzionale. Per chi se lo era dimenticato, ci è stato ricordato che le gerarchie, la legittimità, l'uso dei poteri... sono iscritti nei rapporti di forza militari. La violenza armata come regolatrice dei rapporti di dominio; la guerra, madre terribile di ogni potenza tecnologica ed ideologica.

Di fronte all'enormità di questo avvenimento, perché dovrei andare a votare, se poi i miei rappresentanti nemmeno sono chiamati a decidere se portare la nazione in guerra? Perché dovrei avvalorare con la mia partecipazione un gioco truccato? Per sentirmi dire, poi, che anch'io ho avuto la possibilità di esprimere la mia opinione? Non è forse lo starsene fuori il massimo di dissociazione critica consentita per dimostrare la mia irriducibile estraneità?

Perché stupirsi se le defezioni dalla politica (ad iniziare da quel modestissimo gesto di fiducia verso il sistema democratico che è il voto) iniziano a manifestarsi più pesantemente a partire dalla "sinistra radicale", dall'elettorato di quei partiti che per primi hanno denunciato la "democrazia malata", le tendenze autoritarie delle élites al potere, la perdita di ogni riferimento a un sistema di valori etici e morali, ecc.? A me pare del tutto naturale che la parte più sensibile e più interessata ad una idea democratica di politica sia la prima ad accorgersi e a risentire del suo svuotamento. Forse non sappiamo che sono proprio gli strati popolari, le periferie urbane, i giovani senza prospettive di lavoro... i primi a perdere ogni fiducia nei sistemi rappresentantivi democratici negli Stati uniti e in Gran Bretagna, non a caso i modelli presi a riferimento dal nostro ceto politico? Non è questa la "normalizzazione" auspicata dal duo D'Alema Veltroni? Non è questo il vecchio sogno dei conservatori di tutti i tempi: separare le istituzioni di governo dalla partecipazione popolare? Una sfilza di politologi ci sta spiegando da tempo che la scarsa partecipazione al voto non è affatto la "fine della democrazia", ma un fenomeno da positivo, perché "supera" il monopolio della rappresentanza politica dei partiti e apre la strada a nuove forme di integrazione tra stato e società: le associazioni, le lobbies, il neonotabilato locale, ecc. ecc. Non è detto che - parafrasando Togliatti - i partiti di massa siano l'unico modo in cui "le democrazie si organizzano". Ma è probabile che in questo modo non saranno più i conflitti di classe a segnare il rapporto tra masse e politica Da questo punto di vista sono riusciti a far sparire ogni distinzione tra "destra" e "sinistra", nel senso che la politica si riduce ad essere tecnica di gestione (procedure e decisioni più o meno concertative), all'interno delle compatibilità economiche assegnate dagli organismi sovraordinati che autoregolano il mercato: le imprese multinazionali e gli operatori finanziari.

Allargherei, quindi, il concetto che Bertinotti ha sostenuto nel Comitato politico nazionale del dopo voto, sulla mancata "efficacia" della politica del Prc. Una fascia dell'elettorato ha abbandonato il Prc, ma anche i Ds, e in quantità forse maggiore, non perché siano stati troppo pochi i "risultati" ottenuti dal "governo amico", ma perché è venuta meno la possibilità stessa di avere dei risultati. Non abbiamo perduto perché abbiamo totalizzato pochi punti, ma per sopravvenuta impraticabilità del gioco. Non si è trattato della perdita di uno "smazzo", ma della fine della partita.

E' importante per tutte le sinistre, capire il salto di paradigma cui ci costringono gli avvenimenti e che l'elettorato ha avvertito e ci ha segnalato in modo così drammatico. Guai a noi se non cogliessimo la profonda razionalità di un comportamento (l'astensionismo) che a noi appare contraddittorio solo perché non siamo riusciti ad essere di qualche utilità.Se ciò che segnalo contiene una qualche verità, allora mi pare evidente che i correttivi da apportare alla politica della sinistra d'opposizione per renderla "efficace" non possono essere solo degli aggiustamenti tattici (quale politica delle alleanze, quale collocazione nelle "organizzazioni di massa", quali parole d'ordine per una politica economica più redistributiva, ecc.) ma devono inerire per intero alla rifondazione di un pensiero e di un agire antagonista.

Il vuoto che lascia a sinistra la deriva neoliberista è talmente grande che esso va riempito con una offerta di nuovo senso collettivo. Dobbiamo riuscire a prefigurare un orizzonte che renda ancora plausibile la ricerca di un programma sociale fondato su obiettivi di ordine etico, sui diritti fondamentali, sull'uguaglianza (nel senso di rendere meno diseguali uomini e donne nati/e diseguali), sulle libertà di massa (nel senso di: per tutti gli individui/e) e - prima di tutto - sul fondamentale diritto civile universale che è la possibilità di vivere in pace.

La fiducia nella politica nelle fasce sempre meno tutelate della popolazione può tornare solo se sapremo riattivare il "principio di speranza" attorno ad una ipotesi di futuro auspicabile e per questo più condivisibile. Senza uno slancio ideale forte, una "causazione ideale" (Bertinotti) capace di cortocircuitare le certezze del capitalismo trionfante, mi pare difficile persino che noi si riesca a suscitare movimenti ravvicinati capaci di contestare la brutalità del presente reale (Rossanda). La mancanza di alternative, si sa, produce assuefazione all'esistente. La forza per tirarci fuori la possiamo trovare in una aspirazione di liberazione a partire dal nostro proprio essere. E, in questo percorso, le piste da battere sono davvero infinite: a partire da ogni esperienza di resistenza e controllo dentro il modo di produzione salariato e non, fino alla incontenibile carica soggettiva che vi è nelle innumerevoli iniziative che produce il volontariato (vedi l'esperienza avviata da Carta); dai percorsi dei collettivi femminili, ai comitati spontanei di difesa dell'ambiente e della salute.

Se il conflitto di classe (frammentato e disperso) ha perduto evidenza e centralità politica, se "il soggetto della trasformazione" non è più uno e nemmeno già bello e individuato nelle "figure" disegnate dai contratti di lavoro, pur sempre le sue ragioni si sono diffuse in un percorso labirintico (Revelli) in ogni ganglio della società e continuano a segnare ogni rapporto interpersonale. Ciò che manca è solo una organizzazione delle intelligenze che sappia rintracciare le contraddizioni, riconnetterle in termini di controllo sul proprio lavoro e del proprio tempo, che sappia anche "fare società-altra" in luoghi liberati dal mercato e dallo stato in forma di autogestione dei propri bisogni, e - insieme, contemporaneamente - che sappia rappresentare politicamente ovunque tutte queste soggettività critiche. Io penso che tale sistema di organizzazione non possa fare a meno di essere nominato che con due termini (che più screditati di così non ce n'è, ma che con un po' di fantasia e molta buona volontà è possibile e necessario innovare): partito e comunista.

Insomma, se vogliamo smettere di girare a vuoto attorno alle questioni già molto bene e da anni individuate (per esempio negli "Appuntamenti di fine secolo" di Ingrao, Rossanda, Revelli, Mortellaro e Karol), a me pare sia necessario mettere in comune (che non significa affatto sacrificare) le forze disponibili, per tornare a masticare esperienze di lotta e di organizzazione: le rinnovate Rsu, i Comitati permanenti contro la guerra, le associazioni per la tutela dei diritti... e - perché no? - anche le rappresentanze istituzionali.

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