La rumba acustica di Lokua Kanza

LORRAI MARCELLO

TAPPA MILANESE DEL TOUR ITALIANO

La rumba acustica di Lokua Kanza

A Villa Arconati, un piccolo combo per il cantante e chitarrista franco-zairese che ha studiato in conservatorio

- MARCELLO LORRAI - MILANO

A otto anni ero affascinato da una corale di chiesa, in cui cantavano dei bambini della mia età. Lo trovavo magnifico, e allora ho chiesto se potevo farne parte. Mi hanno fatto provare e mi hanno preso. E' così che ho cominciato, cantando ogni domenica in chiesa. A tredici anni poi ho iniziato a suonare il flauto diritto, a quattordici la chitarra, sono entrato in conservatorio e ho studiato chitarra classica". Viene in mente Manu Dibango che, nella sua autobiografia, ricorda come, studente in Europa, quando gli capitava di ascoltare Bach provava una struggente nostalgia per Douala e per il Cameroun: niente di più lontano dallo stereotipo dell'africano tutto ritmo e tamburi.

Mentre studia musica, nella Kinshasa della sua adolescenza, Lokua Kanza, che è nato in una famiglia in cui si fa fatica a mettere insieme il pranzo con la cena e non ci si possono permettere dei dischi, ascolta alla radio Beatles, Led Zeppelin, James Brown, Steve Wonder, Nat King Cole.

"Poi ho imparato a suonare la chitarra nello stile della rumba, ho fatto molto soukouss nei locali notturni, a diciannove anni lavoravo come chitarrista di Abeti Masikini, la grande cantante purtroppo scomparsa; nell'82 sono andato in Costa d'Avorio, e ad Abidjan ho lavorato al Casinò e in un hotel, quindi nell'84 sono arrivato a Parigi, ho frequentato una scuola di jazz e ho incontrato Ray Lema, con cui ho suonato per tre anni, spesso anche in Italia. Poi c'è stata la collaborazione con Manu Dibango e dopo ho cercato di fare da solo".

Una dimensione acustica

Da tutto questo variegato percorso, che Lokua Kanza riassume per le spicce, senza darsi arie, il cantante e chitarrista zairese ha finito per distillare una originale poetica, molto distante dal clichè della musica "africana". E, con tanta esperienza di chitarra elettrica nella rumba, ha poi invece maturato una spiccata propensione per la dimensione acustica, di cui a Castellazzo di Bollate, nell'ambito del Festival di Villa Arconati, ha proposto un formato temerariamente essenziale: voce e chitarra, due vocalist, la senegalese Julia Sarr e il fratello Didi, e un percussionista zairese.

Con tre album internazionali all'attivo (il primo, davvero felice e soprendente, che gli attirò l'attenzione della critica internazionale nel '94; l'ultimo, uscito all'inizio di quest'anno, per la verità un po' troppo ripetitivo rispetto ai precedenti, e senza lo stesso smalto), Lokua Kanza ha consolidato una poetica intimista ma cordiale, lirica, venata di malinconia: ha le doti e la cultura di un sofisticato pop singer anglosassone, ma anche la conoscenza vissuta della musica africana, l'invidiabile padronanza di diverse lingue (francese, inglese, lingala, swahili), un'eccellente sicurezza vocale e strumentale, e la libertà mentale ed estetica che gli consente di muoversi fuori dagli schemi.

Lokua Kanza ha inanellato alcuni dei brani più accattivanti del suo repertorio, come Mungu, Just To Say I Love You, I Believe in You, si è accompagnato ad un certo punto con la kalimba, e prima di concludere con Wapi Yo come bis da solo alla chitarra, ha lasciato spazio a turno ai due vocalist. Più che Julia Sarr, che Lokua Kanza porta in palmo di mano, impressiona il fratello Didi, toccante nell'appassionata interpretazione di un brano in cui, con una vocalità di sensibilità quasi femminea, esprime quella delicatezza melodica tutta zairese che è nella grande tradizione di Tabu Ley e Papa Wemba. Ci si augura di poterlo ascoltare presto in veste di primattore.

A Castellazzo Lokua Kanza ha diviso la serata con Vinicius Cantuaria. E'stato il brasiliano ad avere l'onere più che l'onore di esibirsi per ultimo, perché dopo lo zairese la sua proposta è apparsa povera, monocorde e precaria. Lo spettacolo di Lokua Kanza è pieno di feeling e di charme.

Storiella in argot

Artista molto serio e rigoroso, Kanza è però capace di coinvolgere il pubblico col solito, ma in questo caso garbato, espediente di farlo cantare assieme a chi sta sul palco, e stabilisce subito una corrente di simpatia con la platea. A Parigi da quindici anni, è rimasto però abbastanza africano da prendere gusto a raccontare una storiellina di febbre del sabato sera a Kinshasa; e da sfidare la capacità di comprensione del pubblico raccontandola in francese, in più usando termini dell'argot dell'Africa francofona, per esempio "banane" per dire un sorriso da un'orecchio all'altro, un significato non compendiato dal vocabolario degli ex colonizzatori: non tutti capiscono bene, ma è buffo e si divertono lo stesso.

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