MUSICA INTERVISTA
- MARCELLO LORRAI - MILANO
"E ra una domanda complessa, e richiedeva una risposta articolata": un giornalista gli ha chiesto come si possano inquadrare i salti di registro della sua attività -musicista, attore, leader politico- e al termine di una spiegazione di parecchi minuti Ruben Blades vuole scusarsi per la lunghezza. E' una star della salsa, ma si esprime con la precisione e la pacatezza di un professore nell'aula di un'università, ambiente con cui del resto non manca di confidenza. A volte nelle parole rivelando un rigorismo che fa pensare ad un militante con una preparazione d'altri tempi: "vengo da una famiglia di lavoratori, mia madre ha lavorato tutta la vita, ed è morta senza sapere cosa fossero delle vacanze", comincia per rispondere a chi gli chiede se gli pare che ci sia qualcuno che abbia proseguito nella direzione che ha tracciato, "Vengo da un barrio e da una formazione molto speciali, e da un'epoca molto speciale, condizioni che non so se si possano ripetere. Oggi si dà molta importanza al successo commerciale, il che significa non creare nessun tipo di conflitto, e confinare la musica nell'ambito dell'intrattenimento, sottraendola alla documentazione della realtà. Prima di incidere una canzone non mi sono mai chiesto se sarebbe piaciuta o meno, e nessuna casa discografica mi ha mai detto che cosa dovevo registrare: però avevo gli strumenti per non soccombere a questi condizionamenti: da una parte la mia famiglia, il mio barrio, la mia realtà, lo studio, dall'altra per esempio il fatto che non ho mai avuto problemi di droga".
Ma anche il Blades che compare sul palco alla testa di un'agguerrita formazione non rinuncia ad un'inclinazione quasi pedagogica: "in generale la musica popolare è stata indirizzata all'evasione, al ballo, con molta importanza riservata al ritmo: noi abbiamo cercato di mettere l'accento sulle storie, sui testi, sull'esperienza della vita nella città. Quella che facciamo adesso, per esempio, è una canzone abbastanza difficile: si intitola Sicarios". E in "Sicarios" c'è qualcosa di un Peter Gabriel, nel sound rock, nella scansione ritmica perentoria, ma anche nella tensione morale di chi chiama in causa responsabilità individuali e collettive. Senso della responsabilità evocato nel nuovo album "Tiempos", in uscita in luglio: "arrivato a cinquant'anni, tento un bilancio delle esperienze che ho fatto, delle lezioni che ho imparato, ed esprimo una profonda convinzione: non si nasce con un destino già segnato, ogni decisione crea un destino. In America latina abbiamo attraversato circostanze molto difficili, credo che dobbiamo reinventare noi stessi: le cose possono migliorare, se noi agiamo in questa direzione".
Di ritorno in Italia dopo lunga assenza, e per la prima volta a Milano nell'ambito del Festival Latinoamericano, Blades si presenta con un organico composto da sax, tromboni, violino, chitarra, tastiere, basso, percussioni, costruito intorno ad Editus, trio del Costa Rica di matrice classica, con cui ha inciso "Tiempos": una compagine duttilissima, che incarna alla perfezione l'idea di salsa che Blades coltiva. "La salsa è fondamentalmente cubana. Ma per fare egregiamente della musica cubana ci sono appunto già i cubani: noi dobbiamo cercare di fare musica valorizzando anche altri aspetti della cultura musicale latinoamericana". E nella tavolozza di colori di Blades c'è il jazz, che si è sposato con la salsa a New York, c'è moltissimo il pathos del tango di Piazzolla, ci sono struggimenti e malinconie che ricordano un gruppo delle Antille francesi come Malavoi: non un collage ma una vera fusione, animata da molta passione, che il forte controllo intellettuale da cui è però governata rende ancora più stimolante. Cantante non di viscere ma seduttivo e insinuante, Blades è misurato anche quando si rivolge al pubblico, in cui sono rappresentate numerose nazionalità latinoamericane, toccando corde che potrebbero facilmente portare all'enfasi e alla retorica: ricorda gli anni in cui in centro e sudamerica la guerra "fria" fu molto "caliente", e saluta quelli tra gli spettatori che hanno perso parenti e amici in Nicaragua, Guatemala, Argentina, invita a raggiungerlo sul palco col suo violino il cubano Alfredo De La Fè, e propone la sua interpretazione di "Muevete" di Juan Formell, leader di un gruppo faro della musica cubana come i Los Van Van, parla di "una sola casa, una sola cultura" per i latinoamericani, e chiama la risposta del pubblico.