Gulag e lager, arcipelaghi lontani L'uso ideologico di una analisi storica basata esclusivamente sulla siggettività delle vittime

DE MICHELIS CESARE

Gulag e lager, arcipelaghi lontani L'uso ideologico di una analisi storica basata esclusivamente sulla siggettività delle vittime

- CESARE DE MICHELIS -

M i è stato chiesto un commento all'intervista con Gustaw Herling su Varlam Salamov condotta da Piero Sinatti e Anna Raffetto. Non sono uno specialista di Salamov, anche se mi capitò di cominciare a conoscerlo quasi trent'anni fa; abbastanza per capire che i suoi scritti (e i Racconti di Kolyma in particolare) richiedono una lettura attenta, impegnativa, senza cui si rischia di scivolare in quella che Roman Jakobson chiamava la "causerie" letteraria (che passa da un tema all'altro, dagli apprezzamenti della forma agli aneddoti sulla vita dell'autore, dai truismi psicologici al contenuto filosofico e sociale dell'opera).

La prima impressione che dà l'intervista è proprio della causerie, pur essendo gli interlocutori certamente e a vario titolo più esperti di me dell'opera di Salamov: in particolare, sul punto delicato e primario della valenza letteraria dei Racconti (in linea di massima mi trovo d'accordo con Herling, che "Salamov è il più grande scrittore del GULag, molto più grande di Solzenicyn") non mi sembra che le considerazioni esposte aggiungano granché a quanto è stato già scritto: per esempio da Georges Nivat ("Salamov [...] con concisione degna di Puskin ha saputo trovare una forma che si presta straordinariamente bene a farci cadere da un abisso all'altro, sempre più in basso"), o da Michel Aucouturier ("con una grande arte della condensazione drammatica e della litote espressiva, [i Racconti] presentano scene di una crudeltà insopportabile che descrivono l'atroce e inumana realtà del bagno penale siberiano") o dallo stesso Sinatti ventitré anni fa ("Salamov è scrittore impietoso, privo di indicazioni, di certezze, rassegnato alla violenza del potere. [I Racconti] si presentano come frammenti che lasciano intravedere una singolare forza di rappresentazione").Ma forse ho torto io a ritenere che questo sia il punto primario, e certamente non lo è nell'intervista, per gran parte dedicata al dibattito sul Comunismo. Anche qui, però, domina una forma di causerie (non più letteraria, ma giornalistico-politica) che si rivela nella approssimazione concettuale e terminologica: l'intervistatore cita ad esempio come "fascista" la casa editrice che per prima pubblicò i Racconti (mentre Salamov, nella penosa lettera del 1972, la chiamava più correttamente "antisovietica"), e ad un certo punto arriva a definire i Vecchio-credenti "eretici ortodossi"!

Se si affronta un tema come quello delle repressioni staliniane (Salamov venne arrestato per aver diffuso il "testamento di Lenin" e accusato di "trockismo") non si può semplificare tutto e trattare come entità equivalenti e intercambiabili comunismo e comunismo sovietico, leninismo e stalinismo (ed anche trockismo!), a rischio di non permettere più la comprensione dei fenomeni concreti. Come ad esempio Herling "non capisce" un'altra illustre vittima del GULag, anzi proprio di Kolyma, Evgenija Ginzburg: "Quanto alla Ginzburg, per me è insopportabile il suo atteggiamento fideistico [nel Comunismo, ndc]. Si tratta di comunisti che, nonostante una tragica esperienza personale, hanno resistito alla tentazione di condannare il Comunismo. Hanno vissuto quelle prove terribili, ma non hanno voluto rinnegare una fede politica [...] Evgenjia Ginzburg, dopo la Kolyma, si professava ancora comunista: una cosa assurda".

Sembra che la sua attenzione, più che dalle vicende e motivazioni della Ginzburg, sia attratta dal riflesso che esse hanno avuto tra gli "intellettuali di sinistra" occidentali ("Non è un caso che anche una parte di intellettuali comunisti italiani - tra cui vorrei ricordare Lucio Lombardo Radice - salutarono con forte solidarietà la testimonianza sulla Kolyma di Evgenija Ginzburg [...] Tutto questo era molto apprezzato in Occidente").

Si possono indicare altri terreni in cui le approssimazioni ingenerano equivoci. Quello "dell'ideologia", per esempio: "Sta finendo un secolo maledettamente ideologico", dice Herling; poi aggiunge: "L' ideologia è la convinzione che si può plasmare l'uomo": dove l'avrà presa una definizione così? Forse solo dal gergo gazzettiero della "morte delle ideologie".

Trent'anni fa lo slavista Renato Poggioli scrisse un prezioso libretto sulla Definizione dell'utopia nel quale, per contrasto, faceva la storia anche dell'ideologia, arrivando ad assumere come fondante - lui, tutt'altro che marxista - la definizione di Marx, l'ideologia come complesso di teorie con cui un regime giustifica se stesso e la società che lo esprime, l'arma intellettuale della reazione: Marx concepiva socialismo e ideologia come valori antitetici, sicché "il socialismo né era né poteva permettersi di essere (o divenire esso stesso) la propria ideologia". Certo: Poggioli sa benissimo che s'è poi concretamente data una "ideologia socialista", ed anche che "l'ideologia esemplare ed estrema è quella che sostiene la legittimità superiore della violenza"; ma, appunto, ciò avviene "quando l'utopia viene meno, perché realizzata o irrealizzabile": l'opposizione tra socialismo marxiano e comunismo staliniano, messa fuori della porta, rientra qui dalla finestra.

Un altro campo è quello della fede propriamente intesa. Herling vede in Salamov "un cristiano senza chiesa", apprezza "il [suo] cristianesimo laico"; queste parole sono il portato delle idee di Silone e di quelle di suo suocero, Benedetto Croce ("perché non possiamo non dirci cristiani"). Ma dopo la "teologia della crisi" non ha più senso parlare d'un simile "cristianesimo" (semmai del "cristianesimo non religioso" di Dietrich Bonöffer che è il suo esatto contrario); tanto più per una figura tragica e radicale come quella di Salamov (figlio travagliato di un pop) che rivendica orgogliosamente: "Nella mia coscienza non c'era più posto per Dio. E sono fiero di poter affermare che dai sei ai sessant'anni non implorai il suo aiuto né a Vologda, né a Mosca, né nel Grande Nord".

Ma il tema che più sta caro a Herling è quello della equivalenza dei "campi di lavoro correzionale" sovietici (la cui Direzione Generale ha dato luogo all'acronimo GULag) e dei campi di sterminio nazisti, che porterebbe direttamente all'equivalenza del Comunismo (sovietico: ma qui l'aggettivo non sembra più rilevante) e del Nazismo; ed anzi coglie l'occasione per un attacco postumo a Primo Levi, di dubbio gusto e di ancor più dubbia fondatezza (la formulazione "mentre si può immaginare un regime socialista senza campi di concentramento, non si può immaginare un regime nazista senza i campi di concentramento" non è poi così peregrina).

A dire il vero, traspare dalla conversazione un risvolto potenzialmente in grado di invalidare quella equivalenza, ed è la domanda che ci si poneva anche "laggiù": "Non saranno russe le radici di tutto questo?". La questione travalica ampiamente la discussione sulla macchina repressiva staliniana, coinvolge tutta la storia russa e la natura stessa del comunismo sovietico: "Un rinnovato dispotismo zarista sotto spoglie comuniste" (secondo la "profezia" di Plechanov), mentre (come disse Ortega y Gasset) "la Russia è comunista approssimativamente come erano romani i tedeschi del Sacro Romano Impero". Ma la domanda appena formulata viene subito liquidata dalla constatazione (apparentemente "forte", ma in realtà assai debole) della maggiore crudeltà del sistema repressivo sovietico (o comunista, è la stessa cosa) rispetto a quello zarista.

Non c'è dubbio che nel GULag si uccidesse come nei lager , ed anche che nell'uno come negli altri l'eliminazione fisica venisse preceduta da un "cammino tra i tormenti" nel corso del quale la dignità umana delle vittime veniva annullata: questo lo intuì Gaetano Salvemini già nel 1935, quando al Congresso di Parigi per la difesa della cultura si levò per difendere Victor Serge sostenendo tra l'altro che i campi staliniani non erano più accoglienti dei lager tedeschi.L'"equivalenza" che se ne può trarre sta tutta nella percezione delle vittime (e siccome anche Herling è stato una di queste, ha tutto il diritto di affermarla; come Salamov, del resto); ma una cosa è la soggettività delle vittime, un'altra l'analisi storica dei fenomeni per quanto tragici essi siano, e un'altra ancora l'uso politico e questo sì ideologico d'una analisi storica che ad essa percezione si fermi. Insomma, il GULag è stato "il regno del male" non meno dei lager nazisti, e non ci sono "operai di Billancourt" che tengano, per tacerne (Sartre); ma "coloro che equiparano i campi di sterminio nazisti con i campi di lavoro staliniani manifestano scarsezza di cognizioni o d'immaginazione, o dell'una e dell'altra": queste non sono parole d'una qualche bieca figura di "progressista", o "intellettuale di sinistra", bensì di un americano fermamente anticomunista come Walter Laqueur, del Centro Studi Strategici e Internazionali di Washington.

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