- LUCIO SALVATICI - PECHINO
M a è proprio questo l'anniversario che conta? in un anno in cui per la Cina si festeggiano e si ricordano anniversari a cifre tonde di alcuni degli avvenimenti più importanti della storia di questo secolo, molti si chiedono se il tam tam che in occidente si fa sul decennale del movimento studentesco e popolare del 1989 contribuirà a dare vita ad una ricorrenza che per la maggior parte dei cinesi non esiste, non essendo stata annunciata in televisione.
E' passato il 4 maggio, ottanta anni dal movimento del 1919 che ispirò le richieste di "democrazia e scienza" degli intellettuali e da cui - due anni più tardi - nacque il Partito Comunista cinese; è passato senza grandi celebrazioni anche il quarantesimo anniversario dell'inizio della "riforma democratica" fatta con l'esercito in Tibet, passerà tra poco il secondo anniversario del ritorno di Hong Kong alla Cina, mentre a fine anno la stessa fine farà Macao. Passerà, il primo ottobre, la madre di tutti gli anniversari, mezzo secolo di Repubblica Popolare Cinese.
Allora perché, si chiedono molti in Cina, proprio nel momento in cui la retorica di stato sembra aver ripreso vigore, ricordare un evento che pur con il suo carico di drammi non sembra a distanza di dieci anni lasciato tracce visibili nell'evoluzione di questo paese?
Negli eventi di quella notte, nella quale molti studenti ed operai che ccupavano Piazza Tian'an Men vennero uccisi in nome della "stabilità", ci sono - triste a dirlo - le basi della solidità della attuale leadership.
Molti di coloro che continuano a dire che Jiang Zemin non ha il carisma e l'immagine per essere un leader comparabile a Deng e Mao, dimenticano che dieci anni alla guida del partito sono un tempo più lungo di quello concesso a chiunque altro, al governo di questo paese. E la faccia di Jiang (così come quella di Li Peng che allora era Primo ministro ed ora presiede il Parlamento) è legata a doppio filo alle tesi che giustificarono il massacro.
In nome della stabilità e della potenza della nazione, la realpolitik di Jiang ha messo nel cassetto gli sforzi degli anni Ottanta per una democratizzazione soft ed ha puntato tutto su economia e politica estera, alzando i toni nazionalisti. E' difficile pensare che gli studenti che tre settimane fa lanciavano molotov e vernice contro l'ambasciata americana cantando l'inno nazionale per protestare contro il bombardamento dell'Ambasciata a Belgrado, vengano dallo stesso ambiente culturale, dalle stesse scuole e dalle stesse famiglie dove dieci anni fa si inneggiava a Gorbaciov e si discuteva dei sistemi democratici dei paesi occidentali.
Niente più di una manifestazione nazionalista a sostegno del proprio governo e della posizione della Cina nel mondo potevano segnare drammaticamente la distanza che questi anni hanno tracciato da quello che allora si riteneva un solido e cosciente "movimento democratico".
Buona parte degli ispiratori e degli animatori di quel movimento sono oggi esiliati all'estero, dove le diverse anime della protesta continuano a non trovare una posizione comune, incassano sempre meno il supporto dei governi occidentali e vivono la frustrazione di vedere la propria patria sempre più lontana dagli ideali che li anno spinti all'esilio o li hanno tenuti in carcere.
Chi ha fatto la scelta lacerante di rimanere continua a non avere alcuna possibilità di espressione. Il "partito democratico" che in molti luoghi della Cina interna è uscito allo scoperto nell'ultimo anno chiedendo un riconoscimento "costituzionale" da parte delle autorità (essere riconosciuti rimane l'obiettivo politico principale di questi gruppi, oggi come nel '78 e nell'89), continua a vedere i propri membri arrestati o privati della libertà di espressione; allo stesso tempo, invece, 30 mila adepti di una setta di Qigong (una pratica respiratoria molto diffusa in Cina), che predica la possibilità di curare le malattie, di vedere il futuro e di volare, riescono ad organizzare (guarda caso, anch'essi per il proprio riconoscimento) una manifestazione proprio sotto il naso dei dirigenti dello stato e delle telecamere di tutto il mondo, a Zhongnanhai, la Città Proibita del Pcc.
Gli spettri millenaristici non sono graditi ai superstiziosi dirigenti cinesi, e quando prendono forme organizzate lo sono ancor meno.
A dieci anni di distanza non c'è da aspettarsi un revival dell'89. quell'anno fu particolare per molti motivi, non ultimo il clima che si respirava nei paesi del blocco socialista, e in Cina, perché si stava arrivando alla resa dei conti tra due modi contrapposti di interpretare le riforme , quella di Zhao Ziyang e Hu Yaobang, che vedevano nella riforma del sistema politico una possibilità per lo sviluppo del paese e quella di Deng, Li Peng e della leadership militare che invece temevano la riforma ed una eccessiva apertura istituzionale.
Quel ciclo si concluse tragicamente, dopo la morte di Hu Yaobang (che aveva guidato il partito fino al 1986), con uno scontro generazionale nel quale interessi ben più alti determinavano inconsapevolmente gli avvenimenti della piazza. Da allora in poi la Cina è diventata, più forte internazionalmente, più determinata economicamente, più ricca e più compatta. Ha fatto piazza pulita dei fantasmi di una esplosione dei conflitti regionali, e ha continuato a crescere a ritmi ineguagliati anche dagli altri paesi dell'area, mentre rifaceva il trucco alla propria immagine nei fori internazionali.
E su questi risultati (sulla cui reale portata si può discutere, ma di cui bisogna riconoscere la magnitudo) ha costruito una nuova coscienza nazionale, che oggi si insegna nelle università al posto dei libri di Rousseau.
Il nazionalismo è stato la nota fondamentale su cui il Jiang-pensiero ha edificato il rapporto con i nuovi intellettuali. Spesso (anche prima degli ultimi fatti) è stato perfino scavalcato dall'anti-americanismo viscerale di alcuni circoli influenti dei propri consiglieri economici e politici (molti dei quali, per non sottrarsi al gusto del paradosso, educati nelle università nordamericane).
Il nuovo ciclo iniziato con Jiang è, alla fine del decimo anno, al suo apice. Le fanfare del nazionalismo cinese suonano oggi più che mai, e più che mai la Cina è chiamata a scegliere tra il realismo economico e la stabilità del potere del Partito.
Nel rapporto con gli Stati Uniti, il nemico-amico di sempre, si gioca il futuro non soltanto della sua politica estera e dei nuovi assetti geopolitici della regione pacifica, ma anche la propria credibilità verso l'interno. Con una economia che (malgrado i proclami sulla riforma delle imprese di stato entro tre anni) ancora ha bisogno di almeno un decennio per recuperare in parte la produttività perduta durante gli anni del radicalismo, l'unica certezza della Cina è quella di aver bisogno del mondo esterno.
L'ingresso della Cina nell'Organizzazione Mondiale del Commercio (Omc) e le ampie concessioni fatte in questo senso a Clinton durante il viaggio di Zhu Rongji a Washington sono divenuti il primo argomento realmente controverso tra "moderati" e "conservatori" dopo anni di pacificazione sotto la bandiera dello sviluppo.
Oggi è per tutti più difficile arrivare ad un accordo che appena tre settimane fa era dato per concluso. La Cina, accusata dal Congresso americano di aver rubato segreti sull'arsenale nucelare americano per due decenni, ribatte sostenendo che nell'89 furono forze straniere ad organizzare e fomentare i disordini di Tian'an Men, trascinando la polemica in un campo minato.
Trovare una via d'uscita è utile ad entrambi prima che dentro al Pcc e al Congresso si sviluppino forze sufficienti ad interrompere un processo di distensione ancora piuttosto labile. La Cina deve confermare gli sforzi per l'accesso nell'Omc, mentre Clinton si prepara a battersi per il rinnovo dello status di Nazione più favorita (ora Ntr Normal Trade Relations). Allo stesso tempo la bomba intelligente del bombardiere dell'Alleanza atlantica sull'Ambasciata cinese a Belgrado ha rimesso in moto meccanismi che sembravano oramai arrugginiti: la ripresa delle critiche interne al consiglio di stato sull'accelerazione impressa alle riforme e all'apertura da Jiang e Zhu; il recupero di credibilità di chi inneggia alla stabilità anzitutto (Li Peng in particolare che pur se dato per spacciato molte volte continua a risorgere, anche in virtù di un forte appoggio dei militari); l'apparato militare, che ha trovato nelle bombe americane il più valido alleato nella battaglia sullo sviluppo della ricerca tecnologica e nucleare.
Segnali di conflittualità forte accompagnano il culmine dell'era Jiang Zemin, mentre nelle piazze si torna a protestare, mentre ancora una volta la società civile e gli intellettuali restano (volenti o nolenti) a guardare e mentre solo le sette protestano.
In questi dieci anni, intanto, il conflitto che nell'89 era visibile solo nelle Università, e che il movimento democratico portò per la prima volta nelle strade, ha acquisito visibilità anche al di fuori dei circoli intellettuali. La società urbana è inequivocabilmente più complessa di quella del 1989, più differenziata, e i problemi sociali sono visibili per la strada e quasi "di moda" in libreria.
Il tono schietto con cui il premier cinese Zhu Rongji parla ormai in Tv delle difficoltà dell'economia del paese, ha stimolato un inarrestabile flusso di libri e rapporti sui "problemi della società", che pur zigzagando tra i codici non scritti della censura, propongono analisi più varie sul futuro della Cina e dei suoi problemi principali a questo punto sotto gli occhi di tutti, tanto che possono essere tranquillamente elencati: la disoccupazione che avanza e che coinvolge trasversalmente tutte le fasce della popolazione; la riforma del sistema previdenziale, che sembra inabissarsi assieme alle aziende statali che ne hanno sempre goduto i benefici ed ora stanno chiudendo sotto il peso dei debiti; la crisi di crescita infrastrutturale delle campagne e i flussi di popolazione rurale che si spingono sempre più verso i mercati del lavoro urbani accrescendo il peso dell'economia sommersa e allargando il numero dei poveri.
Il nazionalismo, che fa presa sulle classi medie che tengono in mano la distribuzione e la burocrazia economica locale serve, oggi come sempre del resto, come collante per tenere insieme un mondo che non si può più controllare ormai con la polizia segreta o con i sistemi di registrazione anagrafica che hanno funzionato fino agli anni Ottanta.
Che in tutto questo possa nascere anche qualcosa d'altro, una alternativa ed una spinta verso il cambiamento sembra per adesso solamente una speranza anche se la storia cinese insegna che i momenti di aggregazione e di dibattito possono essere forieri di nuove idee.
Malgrado la crisi economica, i modelli delle neo-democrazie asiatiche, instabili, familistiche, corrotte, e ipocritamente anti-occidentali, ma efficienti e in grado di creare ricchezza (la crisi asiatica ha rivelato solo la difficoltà della fase infantile dello sviluppo capitalista in Asia orientale, non l'infondatezza del loro modello capitalista), influiscono sul lavoro dei policy-maker cinesi e dell'intelligenzia di questo paese più di quanto non facciano quelli Europei o Statunitensi.
Qui sta forse la differenza tra la fine di quel ciclo e l'apice di questo. Questa leadership è riuscita a coinvolgere gli intellettuali, i tecnici, e tutti quelli che hanno più spesso la tentazione di pensare autonomamente in un progetto che ha messo l'economia al primo posto e lo stato al centro. Le forme di protesta oggi sono più urbane e underground, si esprimono con i gruppi punk, le pagine web, le mostre che rimangono aperte per pochi minuti per sfuggire al controllo, si esprimono con il rifiuto dei valori, più che con il tentativo di costruirne di alternativi.
I buoni di Tian'an Men, se non lavorano a Wall Street, si sono dedicati alle opportunità economiche offerte da questo regime. Sono passati dieci anni, e forse è bene ricordare che qualcosa è cambiato.