G arantire i diritti civili, universalizzare la democrazia, proteggere le minoranze, alleviare le sofferenze degli oppressi, impedire le deportazioni e i massacri... sono nobili propositi politici presi a pretesto per rendere presentabile di fronte all'opinione pubblica mondiale l'intervento armato delle 19 potenze più ricche del Mondo contro ciò che resta della ex Jugoslavia. Dietro l'intervento militare non ci sono né buoni propositi, né buona fede. Dietro al paravento umanitario ci sta ben altro.
Noi lo sappiamo. Per rendersene conto, basterebbe guardare la condizione dei profughi abbandonati a sé stessi nei campi di Kukes e nei valichi con la Macedonia o costretti ad attraversare l'Adriatico sui gommoni. Basterebbe la constatazione che i giustizieri della Nato considerano i diritti umani a "geografia variabile" (Kurdistan, Colombia...). Basterebbe prendere atto che i tiranni, quando subiscono i bombardamenti dei loro nemici, si rinsaldano al loro posto.Ma la realtà è che la grande maggioranza della gente non vuole riconoscere queste semplici controprove della "inumanità" dell'intervento militare. Da qui nasce il nostro problema principale. Per risolvere il quale è necessario affrontare a viso aperto la fondatezza del pretesto umanitario. Se per i signori della guerra la persecuzione dei kosovari da parte degli apparati di polizia, dei militari e dei gruppi paramilitari serbi è un mero lasciapassare per infliggere un colpo mortale alla Jugoslavia, e un avvertimento a quanti intendessero ostacolare gli interessi allargati del capitalismo statunitense nel mondo, per noi, per i democratici e i pacifisti, invece, questa è stata e continua ad essere la questione centrale. Nostro è l'obiettivo del ripristino, almeno, delle condizioni politiche, amministrative e culturali di autonomia cui godeva il Kosovo fino all'avvento al potere di Milosevic. Nostro è l'obiettivo di far rientrare nelle loro case (se ancora ne è rimasta in piedi qualcuna) gli sfollati e i profughi (non come è avvenuto nelle regioni della Krajna, ora croate, dove le popolazioni serbe non sono più tornate: un milione, un milione e mezzo è il popolo dei profughi prodotto dall'affermarsi degli stati etnicamente puri). Nostro è l'obiettivo di far cessare gli odi etnici, nazionalistici, religiosi e politici che insanguinano da dieci anni la ex Jugoslavia. E' proprio perché vogliamo raggiungere questi obiettivi che chiediamo l'immediata cessazione dei bombardamenti e proponiamo alternative alla guerra.
E qui nasce l'altro nostro grande problema: la credibilità, la forza, la realizzabilità delle alternative proposte. Non possiamo solo dire: la guerra non ha mai risolto problemi di convivenza civile; non ci sono scorciatoie alla integrazione multiculturale, pluralista e democratica. Dobbiamo anche concretamente indicare quali possono essere le azioni positive che le istituzioni politiche in campo internazionale - a partire dall'Europa - debbono compiere. Le pratiche dei movimenti pacifisti devono trovare la forza di interagire con le istituzioni della politica e influenzarle a tal punto da costringerle ad attuare azioni di pace efficaci.L'occupazione militare, lo stato di polizia, la persecuzione, la deportazione, la pulizia etnica, i massacri... attuati dal governo della Jugoslavia sono ingiustificabili. Milosevic è il primo nemico del suo popolo. Ciò è quanto dobbiamo dire alle migliaia di immigrati serbi e albanesi che vi sono in Italia. Il sostegno alle opposizioni democratiche serbe, croate, bosniache è condizione fondante di qualsiasi processo di pace. Sono solo loro che possono liberare i popoli balcanici dalla sciagurata storia dei nazionalismi.
La critica alle ideologie della guerra, la demistificazione delle "ragioni" della guerra, non basteranno da sole a far mancare il consenso alla guerra se - contestualmente - non verrà indicata anche qualche possibile, realistica alternativa alla eliminazione della causa dichiarata del conflitto: Milosevic e il suo governo. Va quindi accolta la sfida della fine dei massacri e della autonomia del Kosovo. Ibrahim Rugova, da una parte, e l'opposizione democratica serba, dall'altra, sono le due teste di ponte della pace del processo di democraticizzazione, demilitarizzazione, riconoscimento dei diritti umani, civili e sociali di tutte le popolazioni balcaniche.
Come si può dare voce e aiutare le opposizioni democratiche al regime di Belgrado? E' possibile chiedere all'Europa un piano straordinario di aiuti, che riscatti diritti (clausola multietnica) in cambio di integrazione economica? Esiste una "sinistra" europea che sia capace di elaborare un simile piano e di farne il centro di un pacifismo attivo capace di agire già in questa campagna elettorale?
Alcune proposte sono state fatte. Protettorato Onu o "territorio transnazionale", smilitarizzato, secondo la suggestiva indicazione di Antonio Papisca (fondazione dei diritti dell'Uomo dell'Università di Padova) che individua un diritto innovativo nell'ordinamento internazionale: "Secondo cui i territori in cui vivono, e devono convivere, popoli e gruppi etnici diversi, sono patrimonio comune dell'umanità" (l'Avvenire del 30 marzo '99).
Ma per fare in modo che questi problemi entrino nell'agenda del prossimo Parlamento europeo non basta chiederlo ai candidati in campagna elettorale. Serve una pratica politica pacifista che imponga nei fatti questi obiettivi. L'idea (in qualche misura già sperimentata a Sarajevo) della interposizione pacifica e dell'intervento dell'Onu continua ad essere la proposta più significativa.Le guerre - si sa - si fanno anche perché hanno buoni ritorni in patria. La guerra produce buoni effetti sulle economie interne. La guerra è un poderoso volano per accelerare i tempi della mondializzazione del capitale produttivo, industriale e finanziario. Per noi, in Italia, si tratta di di proseguire nella flessibilizzazione del lavoro: tutti siamo profughi, tutto il lavoro diventa migrante (come sostiene Ferruccio Gambino), non sta più ai margini, ma diviene una figura paradigmatiche del lavoro sociale europeo.
Le migrazioni dal Sud, dall'Est, dall'Estremo oriente modificano la composizione del lavoro operaio. Funzionano da elemento di flessibilizzazione generale del lavoro.
Poi c'è la ricostruzione; il nuovo piano Marshall del Balcani cui lo stesso presidente D'Alema ha accennato, sperando di avere un posto alla tavola degli sciacalli. I piani della ricostruzione sono già partiti. C'è chi calcola quanto profitto si potrà ricavare occupando i mercati spianati dalle bombe (vedi l'inserto Affari&Finanza di Repubblica del 10 maggio).
Ancora una volta piani economici, modelli di sviluppo, assetti di governo, controlli militari si intrecciano indissolubilmente nel "pensiero unico" che domina il mondo occidentale e nell'azione unificata delle Nato.
Anche gli aiuti umanitari sono sussunti dalla mondializzazione. Il volantino prodotto dalla Regione Veneto che reclamizza i conti correnti bancari della "missione arcobaleno" è stato sponsorizzato da McDonald's. Si narra che gli elicotteri americani lanciassero ai bambini del Vietnam la mattina caramelle e la sera napalm. Aveva ragione Gandhi a rifiutare anche la Croce rossa.