JAZZ
- MARCELLO LORRAI - LE PRESE (SVIZZERA)
"A seguire i concerti, con un po' di nostra sorpresa", racconta Cassiano Luminati, uno dei tre giovani che hanno avuto l'idea e che si sono fatti carico di organizzare la prima edizione di Uncool, "è arrivato tutte le sere anche il contadino che ci ha permesso, del resto gratis, di usare il prato". Caso non isolato: sono stati in parecchi a venire a curiosare dalle case di Le Prese, o della vicina cittadina di Poschiavo, da cui prende il nome il lago sulla cui riva si è svolto il festival. Se prima qualcuno temeva che il jazz d'avanguardia potesse attirare orde di barbari, alla fine erano tutti contenti: gli albergatori, che hanno fatto il pieno fuori stagione, e gli abitanti. Così, in una valle elvetica, a pochi chilometri dal confine italiano, Uncool ha applicato con successo la formula che ha per esempio fatto la fortuna della rassegna austriaca di Saalfelden: scenario alpino, uno spartano tendone eretto abbastanza lontano dalle case da non dare disturbo, musicisti e pubblico che creano simpatia attorno alla manifestazione. Forse i conti economici non quadreranno al centesimo, ma Uncool è riuscito nel suo proposito di fare qualcosa per europeizzare un angolo di Svizzera italiana che ha tanto bisogno di uscire dall'autoreferenzialità.
Nel mondo del jazz di ricerca Uncool è entrato dalla porta principale, presentando Cecil Taylor tutte e tre le sere della rassegna, la prima e l'ultima in quintetto, e in mezzo in solo. In entrambe le dimensioni il pianista neroamericano è apparso in forma smagliante, animato da un'energia e da una determinazione, da una passione del fare musica, che fanno pensare agli eroici furori di un'adolescente più che alla longevità di un'artista che ha alle spalle mezzo secolo di carriera e che in marzo ha compiuto settant'anni. Il quintetto era lo stesso acclamato in febbraio al festival di Bergamo: l'olandese Tristan Honsinger al violoncello, lo svedese Harri Sjostrom al soprano, il finlandese Teppo Hauta-aho al contrabbasso, il tedesco Paul Lovens alla batteria. Un quintetto "europeo" che, forse anche grazie ad una serie di date che nel frattempo gli hanno consentito di riunirsi, è sembrato ancora più congeniale alla poetica del pianista: rilevantissimo il ruolo di Honsinger, cui Taylor affida molto spazio; più puntuto e aspro di tre mesi fa il sax di Sjostrom, più fluido, continuo e potente il drumming di Lovens. Due set che Taylor ha diretto perentoriamente, con un approccio decisissimo alla tastiera, nel senso della forza e dell'aggressività: il secondo set si è protratto senza soluzione di continuità per oltre un'ora e mezzo, nel segno di un'estrema, affascinante, radicalità dell'espressione. Tocco forte, approccio aggressivo anche senza accompagnatori, in una performance che ha testimoniato di come Taylor nel solo non si sia adagiato in una formula, per quanto sublime: un'ora ininterrotta (seguita da un paio di bis) che si è allontanata dal flusso e da certi stilemi abituali dei soli degli ultimi anni, preferendo prendere qualche rischio con una dinamica più spezzata, più ricca di cambi di atmosfera. Certo una così massiccia presenza in cartellone di un musicista della statura di Taylor è molto selettiva: un po' troppo accademica per esempio è risultata, soprattutto al confronto, la free music persino di un Evan Parker, nel suo duo ai sax soprano e tenore con John Russell alla chitarra.
Molto bravo Charles Gayle, veterano del free, che per quindici anni, prima di essere riscoperto, ha sbarcato il lunario suonando per strada a New York. Al sax tenore Gayle si produce in lunghissime sequenze senza pause, spesso dagli accenti ayleriani, come in uno stream of consciousness così assorto che rischia di mettere fuori gioco i partner (Sirone al contrabbasso e Gerald Cleaver alla batteria). Ma Gayle è molto concettoso anche quando siede al pianoforte, rivelando un bel senso del chiaroscuro e robuste inclinazioni monkiane. Appuntamento all'anno prossimo ? Uncool per il momento prevede di tornare ogni due anni. Speriamo ci ripensi.