GORAN PASKALJEVIC
"S ono stato in sala mentre guardavate il film e ho così constatato quanto diverso è stato il vostro modo di vederlo rispetto a quando fu proiettato a Venezia. Allora il pubblico rideva, cogliendo l'ironia della metafora, l'humour nero che caratterizza la storia; stasera eravate tutti silenziosi. E' che ora c'è la guerra, uno scenario che anche nel più lugubre dei miei sogni non avrei mai potuto immaginare. E questo pesa sul film, lo rende diverso".
Così Goran Paskaljevic, nel dibattito che ha seguito l'anteprima - lunedì sera a Roma - del suo ultimo film La Polveriera. Una notte qualsiasi a Belgrado, i destini della gente comune che si snodano in un'atmosfera tragicomica e assurda, "credendo - come dice Paskaljevic - di avere in pugno la loro vita mentre sono in realtà trascinati in una spirale di follia balcanica".
Perché un film così? Perché "dopo i tanti film sul conflitto che ha insanguinato e diviso ciò che una volta era la Jugoslavia, tutti quasi esclusivamente imperniati sulla Bosnia, sentivo il bisogno, come jugoslavo di origine serba, di mostrare, attraverso il destino di gente comune, lo stato d'animo del mio popolo". Non immaginava quanto sarebbe accaduto un anno fa, mentre girava il film? No, Paskaljevic non lo immaginava. "Pensavo piuttosto a un'esplosione sociale, non alla guerra". "Che - racconta - ha cambiato la gente: nel film c'è violenza degli uni contro gli altri, degrado che viene dalle tensioni della miseria, di un lungo embargo di 7 anni che avrebbe dovuto colpire Milosevic e invece ha distrutto il popolo. Oggi, sotto le bombe, tutti sono uniti, perché si sentono aggrediti, sono aggrediti. Le differenze, gli odi, si sfumano, la gente vuole difendere il paese. Insieme". "Badate - avverte Paskaljevic - quelli che ora vedete sui ponti con il simbolo del bersaglio sul petto non sono sostenitori di Milosevic, sono gli stessi che due anni fa hanno manifestato per mesi nelle strade di Belgrado contro il regime, gli stessi che avevano inventato tanti slogan ironici e barzellette contro Milosevic. E' proprio da loro che è venuta l'idea del cartello col bersaglio. Speravano di avviare la democratizzazione, ora sono angosciati e umiliati perché non sanno cosa accadrà. Le bombe hanno distrutto ogni speranza".
Qualcuno, insidiosamente, chiede se non teme che il suo film, con la descrizione di una Belgrado in balìa della violenza, con protagonisti così aggressivi e isterici, non rischi di produrre un'immagine negativa del suo paese, dei suoi concittadini. Sorride, Paskaljevic, e risponde con calma che il male che c'è nella gente non è genetico, che i serbi non sono peggio degli italiani, ma è la situazione che produce violenza, disperazione. Alla fine - come nel film - una polveriera.
Belgrado - avverte - era una città piena di gioia, "una città aperta. Anche ora, nonostante il nazionalismo, resta una città aperta. E' tuttora piena di negozi albanesi, per esempio. Contro le loro vetrine non è stato tirato nemmeno un sasso. E proprio questo anima la mia speranza, perché dopo questa guerra insensata dovremo stare assieme. Del resto nel mio film c'è molta reciproca violenza, ma anche grani di tenerezza, di umanità: come quando il giovane nell'autobus se la prende con i passeggeri anziani e gli grida: avete vissuto 500 anni sotto i turchi, poi avete subìto i tedeschi, gli italiani. Cosa aspettate ora per ribellarvi contro il regime, una terza guerra mondiale? Svegliatevi! Anche qui c'è l'espressione di una speranza, quella scena è forse la più politica di tutto il film".
"No, non è un'immagine negativa dei serbi che ho voluto dare, al contrario descrivere cosa può accadere negli esseri umani, in tutti. Cinque settimane fa ero in California al festival di Santa Barbara. In sala c'era un serbo che mi accusava di aver sporcato il paese. Ma mentre parlavamo è arrivata una signora in lacrime, che poi ho riconosciuto per Julie Christie, presidente della giuria. Era sconvolta per il film. Le ho chiesto se dopo averlo visto aveva un'idea migliore o peggiore dei serbi. Mi ha risposto: 'Dovreste mostrarlo a tutti quelli che vi bombardano per farli vergognare di quello che fanno'". Del resto - continua - ai giovani serbi il film è piaciuto, non si sono sentiti offesi per la metafora con cui li ho descritti. Anzi: La Polveriera è "diventato un cult. E' uscito nelle sale indipendenti, quasi senza pubblicità, ma ha funzionato il tam-tam". Chi l'ha prodotto? Si stenta a crederci: è una coproduzione fra Serbia (finanziamento pubblico), Macedonia, Grecia, Turchia e Francia. "I paesi che i governanti dividono li abbiamo uniti in un film".
L'odio antiserbo serpeggia anche nella sala dell'anteprima, e con insistenza ricorre la domanda polemica: ma le vedono le immagini del Kosovo, la tragedia dei rifugiati albanesi, i serbi? A Belgrado, risponde il regista, è possibile captare le vostre trasmissioni, ma voi e gli americani non avete mai visto nulla della nostra realtà. Rifugiati e rifugiati kosovari, per giustificare le bombe, e senza dire che invece hanno accelerato la tragedia. E' tremendo. "Ma voi avete visto mai le stesse scene quando 250 mila serbi furono cacciati dalla sola Croazia? Io non posso più vedere la tv francese o la Cnn. Ero furioso quando le vostre tv, subito dopo che la Nato ha bombardato il convoglio dei profughi, prima hanno detto che erano stati gli aerei serbi, poi che era comunque colpa di Milosevic. Clinton non si è nemmeno scusato, e dopo aver commentato 'l'incidente' è andato a giocare a golf. Non capisco davvero come sia possibile che gli europei siano caduti a tal punto sotto il giogo americano". "Milosevic non è certo un democratico, ma non lo è neppure l'Uck. Non si può spiegare tutto dividendo in modo manicheo, buoni e cattivi".
Che effetto le fa, Paskaljevic, stare in Italia, paese della Nato? "Sono venuto fra amici. Il popolo italiano è un popolo amico, che i serbi hanno sempre amato. Bisogna separare le responsabilità dei governanti da quelle dei popoli. Lo faccio anche nel film. Una cosa è il popolo serbo, una cosa il regime serbo".