FUORI DALLA LEGGE NON C'E' PECCATO

STIMILLI ELETTRA

LA POLITICA DI SAN PAOLO

FUORI DALLA LEGGE NON C'E' PECCATO

In un saggio dedicato alla "fondazione dell'universalismo", uscito da Cronopio, Alain Badiou sottrae la figura di San Paolo alla tradizionale lettura storico-religiosa per ricostruirla in termini esclusivamente filosofici, sulla scia degli studi di Jacob Taubes e Carl Schmitt

- ELETTRA STIMILLI -

P aolo di Tarso, in realtà Saul (nome del primo re d'Israele) è tra le figure del cristianesimo delle origini quella che più significativamente ha segnato la modernità, contribuendo persino alla sua stessa nascita, vista l'importanza delle riflessioni paoline all'interno del movimento della Riforma. Della stessa generazione di Gesù, ebreo di tendenze farisaiche oltre che cittadino romano, in questa duplice veste Paolo partecipò con ardore alle persecuzioni dei cristiani. Il noto evento di Damasco a cui è legata la sua "conversione", è collocabile tra il 33 e il 34. Dopo la sua prima visita a Gerusalemme (38-39 circa), cominciarono i famosi viaggi attraverso il Mediterraneo, che avrebbero avuto termine nel 58, l'anno a cui si fa risalire la sua morte.

Nelle Lettere di Paolo sembra possibile affermare che resti comunque qualcosa di latitante all'interpretazione, un potenziale che permette di scoprire in esse dei documenti di estrema attualità, oltre che di grande forza politica, sebbene già Hegel, poi Nietzsche, Freud e Heidegger, dunque i grandi esponenti del pensiero moderno, si siano confrontati con Paolo in maniera assai determinante per la loro stessa riflessione.

Il nucleo fondamentale del pensiero di Paolo, in fondo, non è altro che una messa in questione, definitiva e radicale, della Legge, attraverso cui la nascita di un "uomo nuovo" diventa realmente possibile: nelle parole del quarto capitolo della Lettera ai Romani, Paolo scrive: "La legge produce la condanna. Dove non c'è legge non c'è neppure trasgressione".

Tra gli studi contemporanei, il contributo più recente al confronto con il pensiero di Paolo di Tarso ci arriva da Alain Badiou (già autore de L'essere e l'evento, Il Melangolo, 1995), con un saggio titolato San Paolo. La fondazione dell'universalismo, pubblicato in Francia nel 1997 dalla Puf, e tradotto dalla Cronopio di Napoli. In quelle pagine, Badiou sottrae la figura di Paolo alla tradizionale lettura storico-religiosa per ricostruirla in termini esclusivamente filosofici. Egli affronta, dunque, direttamente gli scritti di Paolo, e pur nella consapevolezza del fatto che il suo nome viene solitamente associato agli aspetti più istituzionali e meno aperti del cristianesimo (come è noto, infatti, Paolo viene di norma definito il padre della dogmatica) non teme di proporre, ancora una volta, la questione prima e dunque tra tutte più radicale su chi egli sia davvero. Perché solo a partire dalla messa in questione della figura di Paolo, è possibile comprendere in che senso il gesto di annunciare un universalismo in grado annullare identità e territori sia qualcosa che ci interessa molto da vicino, mettendo in gioco alcune questioni fondamentali del nostro tempo. Basti soltanto pensare all'omogeneizzazione astratta messa in atto dal mercato capitalistico, cui corrisponde un aumento esponenziale di rivendicazioni identitarie e territoriali.

A partire da quelle che sono le linee essenziali e più conosciute della vita di Paolo, Badiou ricorda con chiarezza il fatto che nessun documento scritto sulla vita di Gesù anteriore al 70 è giunto fino a noi; dunque, le lettere di Paolo precedono di molto la redazione dei Vangeli, essendo "i testi cristiani più antichi che ci siano pervenuti". Fatto, questo, estremamente importante, soprattutto considerando che l'ordine canonico multisecolare del Nuovo Testamento, in realtà, ci farebbe pensare il contrario.

Se le lettere paoline sono il primo documento del cristianesimo, quel che appare ancor più degno di interesse è il fatto che non avendo Paolo conosciuto Cristo, non può essere stato un testimone degli eventi legati al suo nome. Eppure, egli si dice "apostolo", esplicitamente "rifiutando", in tal modo, "la pretesa di coloro che, nel nome di ciò che furono e di quello che videro, credono di essere i garanti della verità".

"Un apostolo - dice Badiou - non è né un testimone dei fatti, né una memoria. Nel momento in cui da ogni parte siamo sollecitati a fare della 'memoria' la custode del senso, e della coscienza storica il sostituto della politica, la forza della posizione di Paolo non può sfuggirci". E questo proprio perché ciò che conta non è tanto un collezionismo di fatti: la fedeltà alla storia non ha nulla a che fare con il falsificabile o il dimostrabile. Ciò che piuttosto interessa è il modo in cui un singolo si mette in relazione con la verità dell'evento: un evento, la cui unica "prova" è precisamente il fatto che un soggetto lo dichiari tale.Badiou individua in Paolo "l'inventore" di quella paradossale connessione tra un soggetto senza identità ("il vaso di terra", secondo le parole della Seconda Lettera ai Corinzi) e una verità che, pur essendo legata a un evento singolo, è universale, in quanto offerta a tutti e destinata a ciascuno, senza condizioni di appartenenza o generalità precostituite.

In un tale orizzonte, dice Badiou, il progetto di Paolo è quello di mostrare che una logica universale della salvezza non può accordarsi a nessuna legge, né a "quella che lega il pensiero al cosmo" (mondo greco), né a "quella che regola gli effetti di una elezione eccezionale" (ebraismo). Piuttosto, "occorre partire dall'evento in quanto tale, che è acosmico e illegale, in quanto non si integra in nessuna totalità", come nel pensiero greco, "e non è segno di nulla", come accade nell'ebraismo.

Il problema, secondo Badiou, è in definitiva quello di pensare, insieme a Paolo, una singolarità universale, in cui l'Uno sia sempre, allo stesso tempo, "per tutti". A partire da qui anche il mono-teismo diventa nuovamente pensabile. Alla legge, sempre predicativa, particolare e parziale, che solo in questo senso concede a ciascuna parte del tutto ciò che gli è dovuto, Paolo oppone la "sovrabbondanza" della grazia, solo a partire dalla quale non ha più senso alcuna distinzione tra "ebreo e greco, libero e schiavo, uomo e donna". Tale affermazione stabilisce la potenziale universalità del cristianesimo; ma la tesi ontologica qui sottesa, secondo Badiou, è che l'universalismo si basa sulla possibilità "di pensare il multiplo non come parte, ma come eccesso di sé, come fuori-posto, come nomadismo della gratuità".Ecco allora che il peccato, per Paolo, non è in alcun modo una azione malvagia, come vuole la tradizione cristiana, ma una confusione, sotto l'effetto della legge, del posto che occupano la vita e la morte. Paolo non è un moralista. Né, d'altra parte, l'opposizione da lui messa in atto tra la carne (sarx) e lo spirito (pneuma) coincide con la distinzione tra l'anima e il corpo così cara all'Occidente. La carne e lo spirito sono le due vie soggettive a cui corrispondono, dal punto di vista della realtà, la vita e la morte. E' sottomesso alla morte chi vive alla luce della legge. E in questo senso per Paolo la resurrezione è "ciò a partire da cui il centro di gravità della vita è riposto nella vita". Al punto tale che Badiou arriva a dire che "Nietzsche è così violento contro Paolo solamente perché più che suo avversario è suo rivale". Come Nietzsche, infatti, anche Paolo vuole farla finita con la colpevolezza e con la legge.

Il gesto di Paolo, dunque, apre effettivamente una nuova era, tanto che Badiou non può fare a meno di definire il suo un "discorso cristiano", e cioè diverso sia dal "discorso greco", che da quello "ebreo". Va detto però che Paolo, nelle sue lettere, non usa mai la parola "cristiano". E, forse, non si può parlare di quanto è accaduto a Damasco come di una "conversione al cristianesimo", poiché esso non esisteva ancora. Paolo parla solo di Cristo. E Chrístos è la parola greca per designare il Messia.

La posizione di Badiou risalta meglio se messa a confronto con quella di Jacob Taubes, che vede nella prospettiva messianica il punto di maggiore forza del pensiero di Paolo. Taubes, ormai conosciuto anche dai lettori italiani grazie alla traduzione del suo unico libro, l'Escatologia occidentale (Garzanti, 1997), poche settimane prima della sua morte tenne a Heidelberg un seminario sulla Lettera ai Romani, tradotto l'anno scorso dalla Adelphi con il titolo La teologia politica di San Paolo, dove Paolo viene esplicitamente ricondotto alle sue radici ebraiche.

Se il fondamento dell'ebraismo è la Legge, essa, tuttavia, non si risolve totalmente nell'atto positivo di porre decreti, come in definitiva vorrebbe la prospettiva tradizionale dell'ebraismo, soprattutto nell'espressione del rabbinismo farisaico. Il suo compimento, piuttosto, è la sua stessa fine: il cuore dell'annuncio di Paolo, in fondo, è tutto qui. Ma questa, secondo Taubes, è la prospettiva messianica autenticamente propria all'ebraismo stesso, con cui esso, tuttavia, non è mai riuscito a fare i conti fino in fondo, al punto tale da considerare Paolo un eretico. Neppure il cristianesimo ha mai assunto le reali conseguenze messianiche presenti nel pensiero di Paolo, riuscendo a farne, così, soltanto il padre di una nuova dogmatica. Questo duplice fraintendimento è ciò che ha permesso all'ebraismo e al cristianesimo di condurre una lotta secolare in difesa di identità in definitiva falsate.

E' qui il punto focale di divergenza nel lungo e travagliato rapporto tra Taubes e Scholem, il quale corentemente alla sua analisi del messianesimo, vede in Paolo il momento originario di rottura tra ebraismo e cristianesimo. Ma il vero interlocutore di Taubes sul pensiero di Paolo è Carl Schmitt (come dimostrano anche i documenti pubblicati nel libro In divergente accordo. Scritti su Carl Schmitt, uscito nel 1996 dalla Quodlibet) nonostante l'incommensurabile distanza che separa le loro biografie: da una parte un ebreo, scampato alla Schoà grazie al trasferimento in Svizzera del padre, il Gran rabbino Zwi Taubes; dall'altra un fautore del nazionalsocialismo, che dal 1933 al 1938 ricoprì importanti cariche pubbliche cercando anche una giustificazione teorica del regime.

Se Taubes sceglie in Carl Schmitt il suo interlocutore, lo fa nella profonda convinzione che il messianesimo antinomico di Paolo sia l'unica via in grado di mettere radicalmente in crisi la stessa definizione schmittiana della Legge.

La messa in evidenza così radicale da parte di Taubes della prospettiva messianica di Paolo risulta di notevole contributo all'orizzonte universalistico che si apre con il libro di Badiou: universalismo e messianesimo, infatti, sono i due poli all'interno dei quali è possibile individuare l'attualità di Paolo e quindi la forza politica della sua posizione.

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