E' il melò la carta vincente degli schermi africani

DE FRANCESCHI LEONARDO

FESTIVAL CINEMA

E' il melò la carta vincente degli schermi africani

Molte le commedie alla nona edizione della rassegna milanese

- LEONARDO DE FRANCESCHI - MILANO

I l nono Festival del cinema africano ha ormai passato il giro di boa. La manifestazione continua a crescere, nonostante i problemi di budget, la concorrenza feroce di kermesse ad analoga vocazione terzomondista, la presenza di un'amministrazione comunale sempre più sbilanciata in una politica discriminatoria e liberticida ai danni degli immigrati. Nelle strade, ben poche le affiche del festival. Assai più numerosi i manifesti che inneggiano al referendum bossiano per l'abolizione della legge Turco-Napolitano ("Una firma in più, un clandestino in meno").

I festivalieri intanto sciamano da una sala all'altra, confondendosi con un pubblico sempre più attento e partecipe. Sulle bocche di tutti o quasi, in capannelli improvvisati fuori dai cinema, serpeggia un'opinione difficilmente confutabile. Il cinema africano di finzione, dello spettacolo come istituzione narrativa di novanta minuti, attraversa una crisi profonda, forse irreversibile. Ci sono le sempre più costrittive condizioni di produzione. Le televisioni europee sembrano essere timidamente più interessate al cinema arabo e africano. E le grandi istituzioni stringono i cordoni della borsa (la Cooperazione francese di fatto non esiste più). Così accade che ogni film di finzione che risponda alle caratteristiche al format industriale (trentacinque millimetri, colore, novanta minuti) non arriva in porto senza una coproduzione tra quattro-cinque stati (europei e africani) e minimo una decina tra case di produzione, organismi di sostegno, fondi comunitari e così via. E' la tendenza incarnata da Demain, je brule di Mohamed Ben Smail, recuperato qui in concorso dopo la buona affermazione sul Lido di Venezia. Con la volontà di reinventare modalità di racconto più immediatamente riconoscibili, attraverso il gioco con e sui generi cinematografici. Il melodramma, per esempio. Campione pregevole, il fiammeggiante Arake Balah (Il vino dei datteri), prodotto da Youssef Chahine e diretto da Radwan Al Kashif, una storia d'amore tra un ragazzo e un intero villaggio di donne sole, abbandonate dai mariti in fuga verso il miraggio di un lavoro. Finché un brutto giorno ritorna il capo villaggio con alcuni notabili, e l'inevitabile si compie. Ma è sul terreno della commedia che si gioca, in termini di presa di potere dell'immaginario dello spettatore, la partita più importante.

Dalla scatenata pochade interculturale Pièces d'identité a Chikin Bisnis del sudafricano Nishaveni Wa Luruli, dal burkinabé Silmandé/Tourbillon di Pierre Yameogo a TGV del senegalese Moussa Touré. Con le dovute differenze di taglio ed ambizione. Wa Luruli, che racconta la storia di un simpatico pensionato che investe la sua misera buonuscita in un commercio di polli, riuscendo a costruirsi una piccola fortuna, a dispetto della propensione all'etilismo e all'infedeltà coniugale. Come ci ha confermato lo stesso regista, è un inno al self-made man, a questo nuovo spirito di autoimprenditorialità che sta vivendo il Sudafrica, dall'impegno per la lotta contro l'apartheid al tentativo di ottimizzazione dei neri delle proprie risorse economiche ed umane, sotto la spinta della leadership di Thabo Mbeki. Ed è allo stesso tempo, un perfetto esempio di prodotto medio, confezionato per piacere al pubblico delle township e a quello di M-Net (la ricca e dinamica tv satellitare che l'ha prodotto).

Un discorso a parte merita Silmandé/Tourbillon, una sorta di pamphlet politico contro la corruzione e il malgoverno dilaganti nelle tante "democrazie all'africana", Burkina Faso in testa. Yameogo punta il dito contro precise pratiche di malversazione e alienazione delle finanze pubbliche (dal tangentismo alla "moralizzazione" di facciata che comporta solo una maggiore discrezione negli intrallazzi, dalla connivenza nei confronti del traffico di droga alla protezione di élites economiche straniere - qui, libanesi -passando per la pratica dell'esportazione di capitali tramite le valigie diplomatiche), arrivando almeno in termini iconografici a fare nomi e cognomi.

Impossibile non riconoscere nell'identikit di madame Vis-à-vis quello della potentissima signora Compaoré, consorte del plurieletto presidente Blaise Compaoré. Ma quello che più inquieta è che tutto questo viene fatto con la complicità palese dello stesso regime, che presta al film le location autentiche di alcuni ministeri e persino il palazzo presidenziale. Evidentemente, Compaoré ha avviato una diversa strategia di legittimazione del potere, proponendosi da un lato come un grande leader pacificatore (è presidente di turno dell'Organizzazione dell'unità africana), dall'altro come un presidente liberamente eletto che concede ampio spazio all'opposizione, dentro e fuori il parlamento.

Ma l'omicidio in circostanze misteriose di uno dei capi morali dell'opposizione, il giornalista Norbert Zongo, ha suscitato ripercussioni all'interno del paese. Così ci ritroviamo tra le mani questa strana commedia politica, con qualche inutile svolazzo autoriale, che usa il potere per denunciarlo, nello stesso tempo in cui se ne fa ostaggio. Contraddizioni del cinema africano.

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