Yehudi Menuhin, la forza di un politico anomalo

CASTELLINA LUCIANA

RITRATTI

Yehudi Menuhin, la forza di un politico anomalo

LUCIANA CASTELLINA

S ubito dopo Pasqua doveva tenersi in Spagna - ad Alicante - il nuovo corso di formazione per i candidati a insegnare musica, canto, danza, mimo, nelle scuole elementari difficili che hanno aderito al programma MUS-E per aiutare la socializzazione di bambini di lingua, cultura e religione diverse. Nelle settimane successive era fissata a Mosca - per la prima volta fuori dall'Europa comunitaria - la III Assemblea delle culture europee, questa specie di Parlamento inaugurato tre anni fa a Bruxelles in cui, non gli stati e nemmeno i popoli (sempre legati a problemi territoriali), ma le culture, appunto, e cioè entità assai più trasversali e difficili da localizzare, sebbene radicate e sensibilissime, avevano cominciato ad esprimere le loro osservazioni - fino all'ipotesi di un vero e proprio veto morale - su leggi e regole che offendono l'una o l'altra. A queste scadenze Yehudi Menuhin non solo avrebbe attivamente partecipato, ma le stava preparando instancabile con un impegno quotidiano - alle prese persino con i minuti problemi pratici -, un tempo strappato a fatica dalle pieghe del suo densissimo calendario di musicista che ha continuato a vederlo in tournée permanente, da un capo all'altro del mondo, senza soste. Sì che tutti abbiamo finito per dimenticare che aveva ormai 82 anni ed era fragilissimo. Anche per questo la sua morte improvvisa a Berlino, dove teneva il suo ennesimo concerto, ci ha colti tutti alla sprovvista: non l'avevamo messa in conto, come si fa con i giovani.

Senza di lui

Adesso siamo qui noi dodici del Consiglio d'amministrazione della sua Fondazione, un gruppo di amici che con lui collaborava per queste imprese, a chiedersi che fare, come e se sarà possibile continuare i suoi progetti, come far fronte alle scadenze già previste. Senza di lui, senza la forza delle sue convinzioni e della sua utopia positiva, sarà difficile, forse impossibile.

La musica, è stato scritto, perde un maestro d'eccezione: "geniale come Mozart" - ha detto Uto Ughi; "con Menuhin la cultura ha completato una settimana di tragici lutti, quello per Kubrick e Bioy Casares" - ha scritto Vela del Campo. Voglio aggiungere un altro terreno d'azione che ha perduto un suo protagonista sia pure anomalo: la politica intesa nel senso più pieno ed alto del termine. Quando l'estate scorsa il manifesto chiese anche a me di contribuire con un ritratto alla galleria di personaggi europei che stava preparando, contro l'ipotesi che scrivessi di un politico-politico tradizionale, proposi Yehudi Menuhin.

Perché - scrissi allora e scusate se ora lo ripeto - lui, americano, russo, ebreo, giuridicamente diventato svizzero e poi inglese, anzi lord del Regno unito, - è stato certamente uno dei più significativi rappresentati del vecchio continente, un uomo che dell'Europa aveva compreso un elemento che tanti altri, quasi tutti i politici istituzionali, hanno continuato ad ignorare: che nessuna unificazione politica si sarebbe potuta avere, non solo se non fosse stata aggiunta, come il prezzemolo, un po' di cultura - superficiale banalità troppo abusata - ma se non si fosse riflettuto - e trovato il modo di scioglierlo - su un nodo assai difficile: su ciò che lega la cultura comune alle diversissime culture europee, su come unificare senza appiattire, e, cioè, su come dare espressione alle tradizioni creative e ai valori che nel corso di una storia così intricata come la nostra si sono intrecciate e distinte da quella delle nazioni.

Il suo modo di fare musica e il suo modo di fare politica sono stati - si potrebbe dire - omogenei, perché mossi da una comune ispirazione, da una stessa idea-forza: così come sul piano politico Menuhin si è battuto perché venisse data legittimità a ogni tradizione culturale, così ha fatto su quello culturale, portando sul proscenio della "grande" musica - accanto a Mozart e Beethoven o ai moderni riconosciuti - tutti quei compositori in cui riecheggiavano le melodie popolari, a cominciare dal suo amatissimo e inizialmente "scandaloso" Bela Bartok (la prima volta fu interrotto dalla riprovazione del pubblico); quelli delle tradizioni più lontane di quella classica eurocentrica, così avventurandosi nelle incursioni dentro la musica indiana, magrebina e gitana, riproposte in due straordinari concerti a Bruxelles, con gli "sitaristi" Ravi Shankar, i "Bendiristi" magrebini, i canti di 7 donne: della sivigliana Esperanza Fernandez, della algerina Houria Aichi, la boliviana Luzmilla Carpio, la Sud Africana Miriam Makeba, l'israeliana Noa, l'iraniana Marzieh e la tibetana Yang du Tso.

Per non parlare della sua antipaticissima apertura al jazz e della collaborazione strettissima con Stephen Grappelli.

Amati zingari

A piangerlo oggi ci sono non a caso non solo i cultori del violino, ma coloro di cui ha rivendicato il diritto ad esprimere se stessi e a veder riconosciuta e legittimata questa espressione: dai suoi amati zingari ai palestinesi, di cui Menuhin - raro fra gli ebrei - ha proclamato i diritti. (Fino a capire il danno, anche morale, che avrebbero provocato i bombardamenti effettuati sull'Iraq nella pretesa di difendere principi allegramente violati altrove. E a protestare in merito con una lettera personale ed aperta a Bill Clinton e a Tony Blair, che il manifesto ha pubblicato ma nessuno in Italia ha mai nemmeno citato). Non capita a molti artisti di esser pianto da tanta e così diversa umanità.

Nell'appello che aveva già preparato in vista del prossimo Consiglio Europeo incaricato di discutere l'Agenda 2000 (e ancora non reso pubblico) Menuhin aveva scritto: "Ad ignorare in maniera così cieca la cultura, si sta costruendo una torre d'avorio sulla sabbia. Ho avuto la fortuna di nascere in una famiglia che mi ha insegnato tre cose: che tutti e ognuno possiamo apportare qualcosa di unico al progresso del pianeta; che il rispetto e il desiderio di capire sono fondamenti basilari dei nostri rapporti con gli altri; che l'arte è un'antenna preziosa per captare il futuro e non deve essere lasciata in uso esclusivo di pochi privilegiati.

Nel momento in cui i leaders politici dell'Unione europea si preparano a definire le regole del gioco per entrare nel terzo millennio è assolutamente necessario consacrare il ruolo motore della cultura nel programma quadro e nel bilancio dell'Agenda 2000, così come nella Dichiarazione finale del Consiglio Europeo di giugno. E' un dovere irrevocabile verso le generazioni future".

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