ESORDI LETTERARI
- NICOLETTA NOVELLO - PADOVA
C i saluta dalla finestra con la mano, spalancando un sorriso di festa ma la porta chiusa a chiave non ce la apre lui. E' l'infermiere di turno che ci fa entrare nell'ex quinto reparto dell'ospedale psichiatrico in Via dei Colli a Padova, oggi diventata la terza divisione della Comunità terapeutica residenziale protetta. Dentro a queste mura, da 15 anni, vive Vittorio Bianchi, oggi quarantenne e autore del bel libro Io avrei voluto essere come quel passero, edito da Theoria.
"Mi manca una cosa molto bella: la libertà. Purtroppo non sono come quel passero. Il mio posticino è quello di rimanere qui dentro in Manicomio. Dunque, quale sarà la differenza? Che il passero ha la libertà assoluta; mentre io ho la libertà vigilata". Si potrebbe partire proprio da qui, dall'epilogo del testo che raccoglie settanta dei 200 temi scritti da Vittorio, per cominciare a raccontare la sua storia e il suo desiderio di un'esistenza normale. Alle spalle una vita segnata dall'abbandono, trascorsa tra un collegio e un istituto fino al ricovero in quello che resta del manicomio cittadino deve oggi Vittorio è parte di quello che tecnicamente viene definito "residuo psichiatrico", uno dei cento ospiti rimasti a tenere in vita vecchi casermoni del primo novecento, mura che negli anni '70 contenevano 1200 pazienti e che in seguito, grazie alla legge 180, si sono svuotate. Ma per chi resta, Vittorio incluso, non c'è alcuna prospettiva di cambiamento.
"Quando sono entrato in ospedale mi dicevano che Vittorio era una persona pericolosa, un cronico definitivo, un deteriorato su cui non c'era nulla da investire e che non poteva essere inserito in un alloggio protetto", racconta Guido Solerti, insegnante padovano che dal '92 al '96 è stato maestro di Vittorio nel corso di alfabetizzazione tenuto all'interno della struttura e che, insieme allo scrittore Giulio Mozzi, ha curato la scelta dei temi e la loro pubblicazione. "Forse non stiamo parlando dello stesso Vittorio, quello che ha scritto tutte queste cose, che ho conosciuto e visto frequentare con tanto impegno la scuola. Mi viene il dubbio che abbiamo conosciuto delle persone diverse", riflette Solerti.
"Io, soffro di mania di persecuzione: tutti mi guardano e mi leggono nel pensiero. Ad associare questa malattia si dipartono: i dubbi, le impressioni, gli 'alti e bassi', le paure, i sensi di colpa. Insomma sono un tipo schizofrenico". Così, lucido e sconvolgente, Vittorio ci conduce dentro la sua malattia e allo stesso modo, con uno sguardo vivo e tagliente, non addormentato dagli psicofarmaci, pronto ad aprirsi al sorriso per poi richiudersi severo nella paura di lasciar troppo trapelare, ci accompagna nella sua stanza, finalmente singola. E' l'unico cambiamento e privilegio ottenuto dopo anni di segregazione.
Un mare di dischi, l'amore per la lirica, i sussidiari, i libri d'inglese e la foto della prima comunione a Caldogno, in provincia di Vicenza: il suo mondo è raccolto in quei tre metri per tre dove troneggia il suo adorato pianoforte. Mi dedica, con mani strimpellanti che viaggiano sicure quasi fossero un'altra cosa dal corpo, una scanzonata, "Marina, Marina, Marina...". Viene veramente da chiedersi quale Vittorio avremmo potuto conoscere, lui, persona così piena di capacità inventiva e sensibilità nonostante la malattia, se la legge Basaglia avesse fatto il suo corso fino in fondo e lasciato le porte aperte ad un'altra vita.
"Vittorio, sei contento del tuo libro?", gli chiedo sfogliando l'ultimo tema. "Sì, un successo - sorride - ma preferirei che lo pagassero a me quando lo comprano". L'idea non è poi così balorda anche perché finora, del sottoscritto anticipo previsto da contratto, non ha visto una lira.
"La scrittura è stata ed è per Vittorio il suo biglietto da visita, un momento di ricostruzione di sé e un canale di comunicazione importante - dice Guido Solerti - A scuola era un alunno modello, poter avere un ruolo diverso e positivo è per lui fondamentale". Fondamentale ora sarebbe per Vittorio avere un lavoro e uno stipendio. Ricorda con il volto illuminato il periodo, dal '76 al '79, quando lavorava al reparto imballaggio in una fabbrica del vicentino. Lavoro pesante per poi essere licenziato per "comportamento eccessivo". Ma il sogno resta e oggi si chiama "fare il falegname e magari essere pagato anche 50mila lire, ma pagato". Così, quando passiamo attraverso i sentieri alberati dell'ospedale, vicino a un padiglione sventrato dove c'era un laboratorio, lo percorre un guizzo vitale. "Tutto chiuso - smorza Solerti - qui non si fa più nulla e nessuno si prende la responsabilità di far lavorare Vittorio".
Quello che si può fare intanto (Vittorio va fuori da solo in città due volte la settimana) è tuffarsi nel traffico caotico della periferia cittadina e cercare un bar per fare merenda con un cannolo e un'aranciata. E lì, con quella sincerità brutale che diventa la poesia della sua lacerante scrittura, quella che nuota tra le righe fino a toccarti l'anima, Vittorio racconta con consumata perizia dell'altro suo nutrimento. Dal Serenase agli ultimi ritrovati, alla lunga migliori, ci spiega, la sua avventura con gli psicofarmaci è cibo quotidiano.
"Cosa ti manca di più Vittorio?". Forse non aspettava altro che quella domanda per potermi rifilare, occhi di un azzurro indecifrabile lanciati contro i miei, un sano; "Una donna". Sano, perché per Vittorio c'è un senso di colpa che macchia i suoi solitari "peccatucci" o la sua omosessualità "di cui", scrive, "non mi vergogno anche perché mi sono fatto una cosa abituaria", ma non è la normalità. La visita sta per finire e Vittorio, accompagnandoci per mano dentro la matassa ad alto voltaggio che è la sua vita, ci confida che, in fondo, l'unico vizio che ha non è che la sua malattia.