LUCIANA CASTELLINA
N on mi piace il termine "incompiuta" con cui, in occasione del battesimo dell'euro, si è da molti definita la costruzione europea. La parola suggerisce infatti l'idea che possa esserci un compimento lineare, nel senso che, aggiungendo pezzo a pezzo le parti mancanti - dimensione politica, fiscale, sociale, ecc. - alla fine si abbia ciò che è necessario. Non, per carità, che chi usa l'aggettivo possa esser sospettato di covare l'illusione che il processo sia indolore e comunque assicurato, ché anzi Padoa Schioppa evoca addirittura lo spettro del 1914 ove l'Europa non si "compia"; e Valentino Parlato, che da questa ipotesi di interruzione prende spunto, prospetta futuri anche più catastrofici. Il punto è un altro: siamo proprio sicuri che ove l'Unione europea si completasse di tutti gli ingredienti che desideriamo, anche noi di sicura fede di sinistra, reggerebbe la sfida? Io comincio a nutrire qualche dubbio.
Innanzitutto di questa Europa non mi convincono i confini: dove corrono? Paradossalmente il solo lato dove sono chiari, perché a disegnarli c'è nientemeno che un oceano, quello Atlantico, è proprio il più labile, tenuto conto che dall'altra parte c'è il paese a noi più simile, l'America, tant'è vero che ambedue ci chiamiamo "occidente". A nord non c'è niente, e perciò di un confine non c'è neppure bisogno. I problemi nascono a sud ed ad est: a sud c'è solo una pozzanghera - appena lo 0,7% dei mari della Terra - dove tuttavia si dà il caso sia stato inventato quasi tutto quello che compone la nostra civiltà. Pensarsi senza le sponde che vi si affacciano è impossibile. O meglio, come dice Predrag Matvejevitch, "l'Europa senza il Mediterraneo è come un uomo senza infanzia". Un mostro.
A est le cose si complicano anche di più. Dove cessa l'Europa: lungo le linee fissate dall'"Agenda 2000", e cioè al confine orientale dei primi candidati all'ingresso nell'Unione? Lasciamo dunque fuori l'Ucraina, o la Bielorussia, o peggio la Russia, con Tolstoj e Dostojeski (e, scusate, anche Lenin, che un bel po' europeo era anche lui)? Ma se l'includiamo, poiché non possiamo spaccarla, si superano gli Urali e si arriva dritti dritti al Pacifico, ricongiungendoci al Giappone (che del resto è notoriamente già in Occidente).
Si dirà che la scelta si effettua in base alla similitudine e complementarità delle economie, ormai raggiunte anche con l'Europa centrale. Non è molto vero, tant'è che a diventare omologhe non ci sono riuscite neppure le due Germanie. Ma comunque: che senso ha questa complementarietà e similitudine nell'era del mercato globale? Il Mec era una bella e progressiva idea negli anni '50 (checché ne pensassero allora le sinistre); oggi, quando il capitale corre ovunque in tempo reale e una piccola impresa trevigiana che fabbrica sedie copre il grosso della domanda mondiale del settore, e tutti trafficano con tutti da un capo all'altro del globo, l'intuizione appare francamente un po' invecchiata.
Del resto è tutta la geografia a risultare obsoleta, spazi e tempi essendo sempre più annullati dalle nuove tecnologie della comunicazione, che infrangono le antiche vicinanze, cancellano le distanze, consentono di scegliersi il territorio con cui preferenzialmente operare. Torno a chiedere: perché debbo privilegiare l'Europa, e se sì quale: quella dei 30 che piace a Delors, troppo avveduto, comunque, per non suggerire subito un "nucleo duro" che tenga insieme una simile stramberia? E se così è, però, ne viene fuori un bel mostro: un gran corpaccio sbilenco con la testa a Bruxelles, strattonato da una moltitudine di parenti poveri che gli si attaccano alle vesti per esser tirati, anche loro, entro i confini del regno di dio.
E' a questo punto della polemica che i fautori della grande Europa sono soliti invocare la civiltà greco-giudaica-cristiana, l'Illuminismo, l'individuo, la democrazia, eccetera eccetera. Tutte cose importantissime, che però caratterizzano oramai un territorio ben più ampio dell'Europa, tutto l'occidente, a partire dagli Stati uniti. Non è questo, dunque, il collante specifico, la precipua identità dell'Europa, la sua ragion d'essere.
Dobbiamo dunque buttarla, questa Europa, in nome di una globalizzazione estrema, perchè oramai se una patria c'è è il mondo intero?
Credo di no, anche perché non vorrei per nessuna ragione rimanere orfana della geografia e perciò mi pare necessario ricostruire legami certi fra gli esseri umani e i loro territori, così come con la storia delle collettività che hanno loro dato valori e culture. Penso sia anzi urgente andare verso una ri-regionalizzazione di molti aspetti della vita economica, sociale, culturale. Anche nella nostra area euro-mediterranea, già troppo ampia e disomogenea: anziché un grande spazio a cerchi concentrici che, così come il mondo dantesco ruotava attorno a dio, ruota attorno a Bruxelles, assai meglio una serie di cerchi più piccoli che intersecano le loro circonferenze , un po' come il simbolo policentrico delle Olimpiadi. Sì da consentire cooperazione e coesione, e però anche estrema flessibilità e varietà. Entro cui rintracciare il filo rosso di un'identità comune che c'è, e potrebbe essere assai feconda, ma è meno appariscente di quanto si legge nei libri di scuola.
Interrogata in una trasmissione Rai-tv per sapere quali elementi avrei indicato alla scolaresca di un liceo per definire tale identità ho risposto: la gastronomia e il movimento operaio, nelle sue anime bianca e rossa. La spiegazione di questa indubbiamente schematica affermazione sarebbe lunga. Per dirla in due parole ricorro a Carlo Marx. Il quale osservava che in Europa il capitalismo si era sviluppato in un contesto segnato dalla sopravvivenza di forme storico-sociali precapitalistiche ancora vitali che, sebbene partecipi del nuovo modello, ne hanno marcato il sistema egemonico, per il bene e per il male: l'aristocrazia, la chiesa, il mondo rurale. Che hanno consentito di mantenere una distanza critica, un'autonomia di valori, in rapporto a processi che tendono a ridurre ogni dimensione umana, sociale, e culturale al mercato. Una distanza che pervade finanche il senso comune di massa, al limite di una critica alla modernità, di segno rivoluzionario così come reazionario.
Di qui - perdonatemi il salto semplificatore - la resistenza a rinunciare al gusto dell'estrema varietà dei cibi, il rifiuto di adattarsi all'assai più conveniente serializzazione, che non è dato volgare ma cultura materiale di grandi implicazioni generali. Di qui, anche, lo sviluppo di un tipo di movimento operaio non puramente economicista, e di uno stato che non si limita a regolare i rapporti mercantili e a garantire diritti individuali, ma che incarna valori e principi di solidarietà collettiva.
Questi sono in realtà, nell'estrema differenziazione delle culture dei singoli paesi europei, i soli tratti comuni, anche a livello di massa. I soli sui quali si potrebbe forse far leva per costruire ciò che non è "incompiuto" ma non si è mai neppure cominciato a far vivere, perché sull'identità comune - che dia senso ad una ipotesi politica europea, fondamenta alle sue istituzioni - o si sono dette inutili genericità o se ne è ignorata l'importanza.