La sedia dei kurdi, quel giorno a Mosca

CASTELLINA LUCIANA

La sedia dei kurdi, quel giorno a Mosca

LUCIANA CASTELLINA

I l Kurdistan, in questi anni in cui sono stata deputata europea, è stato per me all'ordine del giorno. Presente sempre, non foss'altro perché sulla parete di fronte alla mia scrivania a Strasburgo è appeso un grande ritratto di Leila Zania, deputata kurda eletta nel parlamento turco e poi dal governo del paese imprigionata. Non l'effige di un "outsider-extraparlamentare-gruppettara-amata e conosciuta solo da noialtri", ma una cui il parlamento europeo ha conferito il prestigioso annuale premio Sakarov di cui sono onorati i campioni della lotta per i diritti umani. A riceverlo, e perciò a pronunciare un discorso nell'emiciclo tradizionalmente riservato ai soli capi di stato, il marito di Leila, a sua volta reduce dalle patrie galere.

Che io stessa ho visitato, incontrando con grande emozione i dirigenti del disgraziatissimo Pc turco che, assieme ad una delegazione europea, avevamo accompagnato tempo prima ad Ankara nella speranza che la secolare illegalità del partito fosse cancellata così come era stata quella del Pc spagnolo alla morte di Franco, sicché Santiago Carrillo, sbarcando a Madrid, fu trattenuto solo poche ore in un commissariato e poi rilasciato. E invece i due dirigenti del Pc turco, quando arrivammo all'aeroporto, furono arrestati già sulla scaletta dell'aereo e a nulla servirono le proteste della nostra assai rispettabile delegazione parlamentare che li avrebbe dovuti proteggere, facendo valere i nostri occidentalissimi sacri principi. Fallimmo, e poco ci mancò che dopo lunghe ore di fermo non arrestassero pure noi. Loro restarono in prigione molti anni, a pagare la loro fiducia in uno dei tanti processi di democratizzazione della Turchia, periodicamente annunciato, sperato e poi rimangiato.

Di questi processi ne ho visti passare parecchi, essendo stata per parecchi anni membro della delegazione parlamentare mista Unione europea-Turchia, incaricata di verificare se e quando e a quali condizioni il paese potesse trasformare l'accordo di associazione firmato con la Comunità in vero e proprio ingresso nell'Unione. Finché ho fatto parte di quella delegazione tali condizioni non si sono mai materializzate (e neppure dopo, anzi, nonostante la tremenda voglia di normalizzazione dei 15 europei, visto che quello turco è un appetitosissimo mercato). Ma l'appartenenza a quella delegazione ha concesso a me, e a qualche altro deputato europeo che con me lo richiese, di ottenere il diritto a visitare periodicamente le carceri del paese. Dove ho incontrato donne e uomini kurdi e imparato a conoscere la loro storia tremenda e insieme il loro infinito coraggiosissimo orgoglio.

Nel Comitato misto Europa-Turchia ricordo che, all'inizio, sedeva anche un deputato di origine kurda, che, nel corso del nostro rispettivo mandato, fu espulso dal suo parlamento (e naturalmente successivamente arrestato) perché aveva preteso dire che il Kurdistan esisteva. Prima che lo imprigionassero, assieme ad un deputato verde tedesco, lo portammo con noi, per sfida, ad un ricevimento ufficiale del governo di Ankara. Imbarazzo e poi indifferenza: ai governanti del paese dei pruriti democratici degli europei non potevano importare di meno; e infatti se ne infischiarono delle nostre pretese, così come di quelle della signora Mitterand, che proprio in quegli stessi giorni - doveva trattarsi della prima metà degli '80 - arrivava in Turchia, fermamente decisa a recarsi nella regione maledetta dove turchi e iracheni, su tutto divisi si erano comunque trovati d'accordo nel massacrare questa maledetta etnia che già aveva e non poco imbarazzato l'Impero britannico all'epoca della dissoluzione dell'Impero ottomano.

Ma Londra era concreta, lungimirante e spiccia; e così -come raccontano le stupende memorie del commissariato di Sua Maestà incaricato di sistemare la zona negli anni '20 - decise che il Kuwait, ricco di promettenti pozzi di petroliferi ma solo un pezzo di deserto quasi disabitato, senza storia né radicamenti, dovesse diventare stato indipendente, sia pure sotto protettorato britannico, mentre il Kurdistan, altrettanto ricco di oro nero ma densamente popolato e carico di storia e cultura, dunque di soggettività e perciò politicamente pericoloso, dovesse rimanere mera provincia assoggettata a molti altri stati: l'Irak, l'Iran, la Turchia e persino la Siria. Così da disinnescare la potenziale miccia.Danielle Mitterrand, che allora non era una signora qualunque ma la moglie del potente presidente della potente repubblica francese, sebbene spalleggiata da un ambasciatore sui generis, Eric Rulau, certo non prudente diplomatico di carriera, ma nominato sull'onda progressista del primo governo di sinistra in quanto ex giornalista di le Monde sempre dalla parte della lotta di liberazione nazionale, tornò, come noi, scornata.

Da qualche tempo mi occupo di cinema, come forse qualche lettore del manifesto sa, soprattutto per non cadere nella tentazione, tipica della mia età, di scrivere le mie memorie. Ma vi chiedo venia per una deroga a questo impegno, perché questo ricordo da molti anni mi tortura e in queste settimane più che mai. Riguarda i kurdi.

Era il 1961 ed io ero stata da molti mesi inviata dalla Fgci a Mosca per preparare un Forum della gioventù mondiale. Il primo dell'incipiente disgelo kruscioviano e della cosiddetta coesistenza pacifica. Cosa accadde in occasione di quel Forum, che coincideva anche con l'emergere del dissenso cinese, forse varrebbe la pena di essere raccontato, ma non è questo che voglio fare ora. Voglio solo ricordare i kurdi. Di loro io allora non sapevo niente. Dico proprio niente, neppure che esistessero. E non ero la sola. Sicché nemmeno capii quando un timido barbuto, al momento dell'apertura della conferenza già ipotecata da non pochi casini politici, mi fermò - ero una dei responsabili del comitato organizzatore internazionale - e mi chiese di mettere in sala una sedia per i kurdi. Non capii, perché non sapevo niente. Risposi che si prendesse una sedia da qualche parte e la mettesse dove voleva. Il giovane insistette con infinita pazienza e timidezza per spiegarmi che a lui non premeva la sedia ma la scritta Kurdistan. La voleva per essere alla pari con chi aveva sedie con sopra scritto Italia o India o chessoio. Non capii e non lo accontentai. Gli ospiti sovietici, che qualcosa più di me povera cretina dovevano sapere, fecero finta di saperne meno di me (figurarsi! l'Iraq era allora appena diventato un regime "socialista" che aveva rovesciato il re-pedina degli inglesi; e persino la Turchia si era appena liberata dalla dittatura fascista per mano di un colpo di stato militare progressista. Il Kurdistan era solo un disturbo).Né io né nessuno di noi approfondì. Anzi, ricordo che imbastimmo persino uno scherzo, giocando sulla comune ignoranza, su questa storia della sedia dei kurdi, con Achille Occhetto, che al Forum rappresentava la segreteria della Fgci, e Giacinto Militello, segretario dell'allora potente Unione goliardica italiana (più recentemente presidente dell'Inps).

E' soltanto parecchi anni più tardi, quando - già giornalista del manifesto, e già all'epoca delle origini affamata come tutta quella redazione, allora e tuttora - accettai di scrivere in appalto e per danaro, per una prestigiosa collana, la storia del Kurdistan. E così scoprii quanto tragica era la vicenda della sedia mancata. Scoprii una pagina storica drammatica eroica disgraziata incredibile, difficilissima da ricostruire perché volutamente cancellata. Da allora provo nei confronti del Kurdistan un senso tremendo di colpa e quel che accade in questi giorni, in cui si parla di processare Ocalan anziché il governo di Ankara, mi fa star male più che altri.

Ho ceduto alla debolezza di questo piccolo squarcio autobiografico per rafforzare una proposta: perché il manifesto non racconta la storia ignorata del Kurdistan, a puntate perché è lunga e intricata, sotto forma di un taglio basso che un tempo si chiamava folleton? Se ritrovo il mio libro, può forse servire a chi si impegni a redigerla e a riempire i successivi 25 anni i cui dettagli io stessa ignoro. Credo che varrebbe la pena, per poter mettere tutta la convinzione necessaria nella battaglia presente per l'asilo politico.

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