APEC LA CRISI ASIATICA METTE IN PERICOLO PECHINO, A VENT'ANNI DAL MODELLO DENGHISTA
- LUCIO SALVATICI - PECHINO
I l numero delle vittime delle inondazioni di questa estate cinese? 3.656. Il numero ufficiale è stato reso noto nel comunicato dell'ufficio centrale di statistica, significativamente a fianco del dato incoraggiante sulla crescita economica cinese nei primi tre quarti dell'anno: 7,2%.
Due dati "statistici" con valenze certamente diverse e citati assieme ad altri meno evocativi e meno attesi, ma che ben definiscono i due estremi dell'analisi dell'attuale situazione cinese. Da una parte sta il fattore produttivo, fonte di legittimazione del potere del partito e di consolidamento della scelta tecnocratica del governo di Zhu Rongji. Dall'altra sta il fattore umano, presente in molte forme sulle pagine dei giornali. Di uomini è fatta la tragedia di un quinto della popolazione cinese sommersa dalle acque (22 milioni i senza tetto dichiarati nelle varie aree colpite); di uomini è fatto l'esercito di disoccupati vittime della "razionalizzazione" e modernizzazione dei cicli produttivi nelle aziende di stato.
Il messaggio che una macchina della propaganda (da tempo priva di stimoli) sta cercando di lanciare al paese e al mondo è che la Cina "tiene". Tiene testa alle inondazioni grazie ai "figli" del paese, i giovani militari, impegnati su tutto il fronte a limitare i danni della più grave calamità naturale di questo genere dal 1954; e tiene testa anche alla crisi asiatica ed agli scettici che dopo aver visto la crescita del Pil scendere al 7% nel primo semestre avevano scommesso su un ulteriore rallentamento dopo le inondazioni che hanno tra l'altro colpito zone rurali molto produttive ma anche centri industriali di prima importanza, come Wuhan.
Televisione e giornali, ma presto anche cinema e teatri, stanno trasformando le disgraziate vicende della valle dello Yangtze in una epopea dell'esercito popolare, riabilitandone in parte la reputazione, ripetutamente messa in discussione dagli episodi di corruzione di cui è stato protagonista. Lacrime ed eroismo hanno accompangato il rilancio di una propaganda in pieno stile "realismo socialista", proprio mentre Jiang Zemin chiedeva ed otteneva dai generali, di liberarsi del loro impero economico costruito in vent'anni di riforme e di riconversione di un'obsoleta industria bellica alle richieste del mercato.
L'immagine di eroismo dei soldati di leva (impegnati nella più grande mobilitazione militare in tempo di pace), cantata dai più famosi cantanti ed incarnata dai migliori attori in numerose serie televisive, fa da contraltare alle denunce pubbliche della corruzione nei ranghi dell'esercito ed all'offerta liquidatoria di Zhu Rongji di un indennizzo di 50 miliardi di yuan per la chiusura o la cessione delle aziende di proprietà dei militari, buona parte delle quali in pesante passivo. Dal cielo per i generali non è piovuta solo acqua.
I dati economici del terzo quadrimestre non possono ancora essere influenzati dalle distruzioni e dai mancati raccolti, né dalle distorsioni del sistema distributivo dovute all'opera di sostegno verso le aree allagate, ma sono comunque un segnale incoraggiante, in un sistema economico che ha sempre prestato più attenzione ai segnali quantitativi che all'efficienza qualitativa.
Ma i danni delle inondazioni sono effettivamente giganteschi. A parte il conto dei morti, sul quale continuerà a svilupparsi una polemica amara, i danni sono stati computati in oltre 34 miliardi di dollari, mentre circa 78 milioni di ettari di terre coltivate sono andati perduti al raccolto. 26 milioni di abitazioni sono state danneggiate o distrutte, e sono almeno 380 milioni le persone che vivono nelle aree colpite e che hanno subito conseguenze dirette.
Anche per l'enormità di questi numeri, l'8% di crescita ancora oggi richiesto da Zhu Rongji come obiettivo minimo per il 1998, non sembra oggi raggiungibile, a meno di complesse partite di giro all'ufficio di statistica o di brusche e alchemiche accelerate produttive, ma il tracollo, malgrado tutto non c'è stato e la Cina naviga a vista verso il prossimo secolo consolidando la propria posizione di paese più stabile dell'area. I segnali di allarme di una deflazione oramai di lungo periodo (i prezzi al dettaglio sono calati del 2,5% quelli al consumo dello 0,7%) sono compensati dall'ingentissimo aumento di investimenti diretti.
Sfuggita (grazie al sistema finanziario ancora chiuso), agli effetti diretti delle azioni speculative sui mercati finanziari che hanno affossato i sistemi poco protetti dei paesi Asean e della Corea, la Cina sembra essere in grado di paracadutarsi senza gravi conseguenze anche sul panorama dell'economia regionale di medio periodo. La svalutazione delle monete asiatiche l'ha resa meno competitiva sui mercati dell'area ed ha contratto la domanda di merci cinesi da paesi tradizionalmente importatori. Oggi l'export cinese, che creava il 38% del Pil nel 1997, ha ridotto a poco più del 20% la propria incidenza, ma malgrado questo, e pur rallentando rispetto all'anno record del 1997, ha continuato a crescere.
La Cina sembra dunque in grado di reagire con elasticità ad un mercato che si contrae, mentre tenta in tutti i modi di stimolare la domanda interna - con un piano che Zhu stesso ha chiamato Keynesiano - per riavviare il ciclo produzione-consumi ed usare le opere pubbliche per creare occupazione. Nel nome di Keynes gli investimenti sono cresciuti del 28% negli ultimi 3 mesi (34% solo nel mese di settembre), mentre le aziende (in particolare quelle della grande meccanica) sono state invitate ad aumentare la produzione (+10,2% a settembre), anche in mancanza di vere prospettive di mercato, per rincorrere l'obiettivo di crescita richiesto dal premier.
Perfino le inondazioni potrebbero contribuire a questo scopo: secondo il primo ministro, se la ricostruzione avverrà in tempi brevi il loro effetto negativo sulla produzione di quest'anno, verrà bilanciato dalla ricchezza e dal lavoro creati dall'opera di ricostruzione. Ma i dati sul raccolto di quest'anno (ci si aspetta che circa 19 milioni di tonnellate di cereali siano andati perduti), dopo tre anni record consecutivi, non potranno aiutare a spingere verso l'alto il dato della crescita su cui si gioca la partita politica di Zhu Rongji.
Quello che veramente conta è che la Cina, sotto la spinta delle forze interne e con i limiti imposti dall'assetto variabile delle economie dell'area, sta cambiando strategia e struttura. La crescita fino ad oggi è stata basata, come per molti degli altri paesi dell'ex miracolo asiatico, sulle esportazioni. In una situazione di stagnazione della domanda e di rapida perdita di produttività, oggi la Cina è costretta ad approfondire un processo che è già in corso, quello di allargamento del proprio mercato e di una sua ulteriore apertura verso l'esterno, mentre i finanziamenti stranieri, il cui flusso si è indebolito ma non interrotto in questi mesi di crisi (il dato dei primi nove mesi corrisponde a quello dell'anno scorso, 31,4 mld di dollari), puntano sempre di più ad una localizzazione destinata al mercato di consumo interno e non alla riesportazione.
Al mercato globale in crisi, i cinesi interessano oggi più come consumatori che come manodopera.
Oltre ad aver cambiato strategia di sviluppo, la Cina sta anche cambiando asse. Questi vent'anni di riforme (fu nell'Ottobre del 1978 che Deng iniziò tutto) hanno favorito un decentramento del potere economico senza precedenti, al punto che oggi molti dubitano della reale capacità dello stato centrale di determinare le politiche di sviluppo di tutto il paese e di garantirne la realizzazione.
Non lo può fare più perché ha oramai perduto il controllo delle entrate fiscali: complessivamente poco più di un quinto delle entrate pubbliche giungono nelle casse dello stato, il resto rimane alle provincie, proprio mentre quella che era la principale fonte di entrate (le imprese di proprietà pubblica che anche quest'anno hanno ridotto i propri utili complessivi del 36%) ritornano allo stato oggi poco più dell'1% dei limitati utili prodotti. Le aziende private e individuali sfuggono sistematicamente all'imposizione fiscale, mentre Pechino continua ad assegnare alle provincie la realizzazione di politiche fiscali più vantaggiose che consentano di attrarre gli investimenti stranieri.
E proprio in questa situazione vengono dal presidente Jiang segnali di un rallentamento del ritmo delle riforme. Gli slogan del XV congresso dell'anno scorso sulla privatizzazione delle imprese di stato entro tre anni sono sembrati echeggiare molto da lontano al terzo plenum appena conclusosi. Un plenum atteso come il più importante dell'anno - proprio a vent'anni da quello che diede il via alle riforme - ma che ha lasciato i cronisti a taccuino vuoto, alla vana ricerca di qualche novità.
Il messaggio è che bisogna andarci piano, con la privatizzazione, mentre anche il processo di apertura sembra segnare il passo. Segnali scoraggianti per gli investitori stranieri sono venuti recentemente nel campo delle telecomunicazioni e dei trasporti, dove è stato di fatto posto un veto a nuove iniziative del capitale estero, mentre le trattative per l'accesso della Cina al Wto segnano il passo oramai da diversi mesi, malgrado gli sforzi diplomatici dell'Unione Europea (Santer sarà a Pechino a fine mese).
La Cina tiene, quindi, ma si chiude e conta sui propri consumi ancora limitati e sul controllo amministrativo e burocratico dell'apparato industriale, mentre 8% sembra oramai una parola d'ordine più che un obiettivo economico.