DIALOGHI CON PLATONE, NONOSTANTE PLATONE

VEGETTI MARIO

UNA DISCUSSIONE A PROPOSITO DELL'ULTIMO LIBRO DI GIOVANNI REALE

DIALOGHI CON PLATONE, NONOSTANTE PLATONE

E' forse arrivato il tempo per l'apertura di spazi meno settari nella contesa che oppone i diversi esegeti del grande filosofo ateniese. Novità e perplessità derivate dalla lettura di "Platone. Alla ricerca della sapienza perduta", un libro divulgativo di Giovanni Reale pubblicato da Rizzoli, cui è utile affiancare la analisi della "Nuova interpretazione di Platone. Un dialogo fra Gadamer e la scuola di Tubinga-Milano", Rusconi

- MARIO VEGETTI -

C erto, il sottotitolo alla Indiana Jones che compare sulla copertina del libro di Giovanni Reale dedicato a Platone. Alla ricerca della sapienza perduta altro non può essere che redazionale; e comunque non ha nulla a che fare con il contenuto del libro. Segue, immediatamente, una seconda premessa: non si tratta, o non si tratta soltanto, di un'ennesima ripresa, questa volta a scopo divulgativo, delle celebri tesi oralistico-esoteriche su Platone sostenute dalla scuola di Tübingen, e, in Italia, da quella dell'Università Cattolica di Milano, con un successo di pubblico inversamente proporzionale a quello ottenuto presso la comunità scientifica. A mio avviso c'è invece, insieme con il noto, qualche cosa di nuovo che merita di venire segnalato.

La prima di queste novità riguarda il privilegio concesso da Platone alla forma orale della comunicazione filosofica. A questo proposito, Reale discute con autori come Havelock, Ong, Cerri, che non fanno certo parte dell'orizzonte metafisico tradizionale della cosiddetta scuola di Tubinga-Milano. Scoperta tardiva, si dirà, ma forse anche l'intenzione di allargare il raggio degli interlocutori e degli argomenti.In ogni caso, Reale ha ragione quando osserva che Havelock ha giustamente collocato Platone nel punto di rottura della tradizione dell'oralità poetica, ma ha poi dimenticato di aggiungere che Platone è (almeno a proposito della comunicazione filosofica) critico di quella stessa scrittura, di cui egli ha peraltro fissato, nel Fedro, le nuove regole di composizione concettualmente adeguate. Il testo di questa scrittura dev'essere come un corpo, unitario ma ben articolato nelle sue giunture, seguendo le procedure del pensiero dialettico. Ma questo stesso pensiero non può poi venire comunicato in forma scritta almeno per i suoi principi ultimi; secondo Platone, come è noto, la scrittura inevitabilmente "volgarizza" (perché sottrae il fruitore al controllo dell'autore), ripete in modo inerte sempre lo stesso messaggio senza essere in grado di difenderlo dalle critiche (cioè sottrae il messaggio alla protezione dell'autore), infine sterilizza la memoria facendo del segno un surrogato, una protesi esterna, dell'attività della mente.Tutto questo va dunque integrato, secondo Reale, nello schema di Havelock. Accanto alla vecchia oralità poetica, di cui Platone contribuisce a determinare la crisi, e alla nuova scrittura dei saperi, di cui egli delinea le regole, c'è una nuova forma di oralità, quella dialettica, consistente nel dialogo filosofico di indubbia matrice socratica. Il dialogo scritto ne è una imitazione inevitabilmente parziale, perché non tutto ciò che viene detto può essere trascritto; ma di questa parzialità il dialogo scritto offre spie ed indizi, quelli che secondo Reale sono stati erroneamente interpretati come segnali di apertura e problematicità della filosofia platonica, e che invece vanno ermeneuticamente intesi come allusioni alla inevitabile incompiutezza della scrittura.

Che cosa dunque dell'oralità dialettica non viene, e non può venire trascritto? Qui Reale torna all'esoterismo tipico della sua "scuola": si tratta dei "messaggi ultimativi della filosofia", che costituiscono "dottrine in sé dicibili e scrivibili, ma non per i più". Questi messaggi sono poi quelli a noi noti attraverso la tradizione indiretta che fa capo ad Aristotele: la riduzione del Bene all'Uno, e la generazione di tutti i livelli di realtà a partire da due principi, l'Uno, appunto, principio di ordine e valore, e la Diade, principio di molteplicità e disordine. Ci tornerò tra breve. Intanto vorrei osservare che esiste una palese contraddizione tra il far risalire a Socrate la forma dell'oralità dialettica contrapposta da Platone alla scrittura, e poi giustificarla sulla base di un esoterismo metafisico che certamente a Socrate non apparteneva.

E' certo chiaro che per Platone la filosofia non può venire volgarizzata dal libro, come facevano i sofisti. Ma questo si deve più probabilmente al fatto che per lui la filosofia è tanto un insieme di dottrine quanto una forma di vita, e le prime non hanno senso senza la pratica della seconda, che è anche immediatamente etica, e perciò selettiva. E il fondamento delle dottrine stesse non sta probabilmente in una scarna dottrina dei principi (che certamente Platone ha esplorato, sia in forma scritta - basti pensare al Filebo e al Parmenide - sia in forma orale), quanto piuttosto nel lavoro fondazionale della dialettica, chiamato a produrre, nelle singole circostanze dialogiche e argomentative, un senso della verità che resta costitutivamente parziale e condizionato.

E veniamo, con questo, al secondo aspetto cardine del discorso di Reale, la presunta sistematica metafisica di Platone, ricostruita, come si è detto, soprattutto in base alla testimonianza di Aristotele. Forse per il carattere divulgativo del libro, qui sta certamente la sua parte più debole. Poiché l'Uno è il Bene, Reale non esita a trarne la conclusione che la Diade è il Male. Egli cerca tuttavia di attenuare l'inevitabile effetto gnostico prodotto da questa opposizione, sostenendo che i due principi non sono opposti ma connessi da una "sinergia bipolare" (a parte possibili echi politichesi, come può il Bene essere sinergico col Male? Che mondo è questo?), e soprattutto che nella storia il Bene vince sempre, perché "Dio e il divino sono il principio regolatore della storia".

Ora, tutto questo quadra davvero poco sia con Platone sia con la logica. Con Platone, perché sappiamo bene che per lui la situazione storica, cioè spazio-temporale, è strutturalmente un principio di decadenza e de-formazione, la cui presa di controllo è certo un compito etico-politico, di sicuro però mai garantito dalla vittoria finale del Bene né tantomeno da Dio. Anzi, sappiamo che se anche la città giusta si potesse mai realizzare nella storia, essa sarebbe prima o poi costretta a sua volta alla decadenza. E il ragionamento quadra poco anche con la logica. Due principi opposti confliggono e non cooperano, il mondo può essere il risultato del conflitto e non della sinergia. Ora, se è il Bene che prevale, il mondo sarà sostanzialmente ordinato e buono; ma come è possibile, se il suo carattere strutturale, ad ogni livello, è quello della molteplicità? Ma se il mondo è di fatto molteplice, il suo vero "padre" non è allora l'Uno/Bene, che di per sé non genererebbe nulla, bensì la Diade/Male, artefice della pluralità. Il mondo dunque è figlio del Male; che cosa allora assicura il trionfo del Bene-Dio? Tanto per dire che se si vuol giocare il gioco della metafisica bisogna farlo sul serio.Anche qui, però, nel discorso di Reale, accanto a queste debolezze (che rispecchiano comunque incertezze teoriche comuni a tutta la "scuola"), c'è una novità. Essa consiste nel riconoscimento del carattere "aperto", euristico, cioè non di stampo neoplatonico, del sistema attribuito a Platone. E' una concessione importante, che distanzia Reale dalle precedenti rigidezze alla maniera del fondatore della "scuola", Krämer. Per queste differenze interne, è interessante vedere un altro volumetto, a cura di G. Girgenti, La nuova interpretazione di Platone. Un dialogo fra H.G. Gadamer e la scuola di Tubinga-Milano (Rusconi, 1998), che registra il tentativo di annettere Gadamer alla "scuola", fallito di fronte al tenace rifiuto opposto dal vecchio filosofo ermeneuta di accettare qualsiasi carattere metafisico-sistematico in Platone. Esso ha formato una sorta di cartina di tornasole. Fermo sulle sue vecchie posizioni Krämer; più elastico, come si è visto, Reale; decisamente più problematico il suo allievo Migliori, al quale l'assidua pratica di commentatore dei dialoghi è stata certamente utile per apprezzarne la ricchezza, prima e al di là di ogni frettolosa sistematizzazione esoterica e metafisica.Può darsi, insomma, che la "spinta propulsiva" per l'appropriazione o la colonizzazione di Platone da parte degli interpreti e

soterico-metafisici si stia esaurendo, e che essi stiano cercando spazi di confronto meno settari. Sarebbe una buona notizia per gli studi platonici, e, più o meno indirettamente, per il lavoro filosofico.

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