"Singoli casi umani"

CALAMAI ENRICO

TESTIMONIANZA PARLA IL CONSOLE ITALIANO

"Singoli casi umani"

I miei superiori non volevano turbare i rapporti con le autorità militari

- ENRICO CALAMAI (*) - ROMA Quando nel '76 ebbe luogo il golpe militare in Argentina, mi trovavo in servizio presso il Consolato d'Italia a Buenos Aires da alcuni anni, ed ero anche stato, per alcuni mesi, in missione a Santiago del Cile, quando nella nostra ambasciata c'erano circa 400 rifugiati. Ero quindi abituato alle sofferenze che un colpo di stato comporta, ma anche cosciente della capacità d'incidenza che su quelle realtà hanno l'opinione pubblica, le forze politiche dei "paesi avanzati" e i funzionari diplomatici in loco.

I militari argentini, nella preparazione del golpe, si erano proposti di sradicare le forze della sinistra, sia armata che sindacale (ma anche semplicemente democratico/culturali). Volevano evitare però l'errore commesso dai colleghi cileni che avevano permesso la conoscenza della loro stessa efferatezza alienandosi l'opinione pubblica mondiale. Nasceva così una strategia del segreto intorno a ciò che stava effettivamente avendo luogo, compresa la fine dei cosiddetti "desaparecidos".

L'Ambasciata d'Italia venne informata che, non essendo in corso alcuna guerra civile ma soltanto ordinarie operazioni di polizia, non sarebbe stato riconosciuto il diritto di asilo. Non vi furono mai istruzioni scritte su cosa i funzionari in servizio presso la nostra rete diplomatico-consolare in Argentina dovessero fare o evitare nelle circostanze. Si viveva, tuttavia, all'interno di un sistema verticistico paragonabile a quello degli Interni o delle Forze Armate, che penalizzava fortemente i comportamenti per qualunque motivo non in sintonia con l'atteggiamento ritenuto più conveniente a livello politico.

Per quanto mi riguarda, dovetti - fin da prima del golpe - confrontarmi in Consolato con persone alla ricerca di protezione, ben sapendo cosa significasse lasciarli andare, e dovendo ricorrere a continui stratagemmi semplicemente per fare arrivare al nostro ministero degli Esteri la relativa informazione. Era questo un passaggio importantissimo, in quanto ben difficilmente si sarebbe potuto, in un secondo momento, sostenere di non saper niente circa la sorte di connazionali che avevano chiesto aiuto, qualora agli atti ministeriali figurasse la relativa segnalazione.

Altro problema di sostanziale importanza divenne la comunicazione verso l'Italia, a parenti o forze politiche, dei singoli casi di persone in pericolo al fine di attivarle per sensibilizzare il ministero degli Esteri. Devo dire che il Pci non lasciò mai cadere le segnalazioni che si riusciva a fargli pervenire sia telefonicamente che telegraficamente.

Come probabilmente avviene sempre, in situazioni tragiche come quella argentina all'epoca, si formò una rete di privati disposti a dare una mano: giornalisti - vorrei ricordare la generosa figura di Giangiacomo Foà del "Corriere della Sera", che ben presto fu costretto a lasciare il paese -sindacalisti, come il rappresentante dell'Inca-Cgil, sacerdoti italiani (ma non tutti), impiegati dell'Alitalia e della Varig.

Non posso dire di aver potuto invece far affidamento sui miei superiori gerarchici, preoccupati di non turbare i rapporti con le autorità militari in nome di "singoli casi umani". Ricordo ancora, a tale proposito, che un ambasciatore italiano di quegli anni ebbe a dichiarare ad un giornalista de "l'Europeo" che i morti italiani si potevano contare "sulle dita di una mano un po' larga".

Non credo si ignori che, per quanto riguarda l'Argentina, vi fu effettivamente un silenzio, a livello ufficiale e della stampa in generale, che contrasta con l'atteggiamento tenuto nel caso cileno per il quale gli interessi economici italiani in gioco erano molto più ridotti.

(*) console a Buenos Aires nel'72-'77

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