Verona Jazz per Big Band

LORRAI MARCELLO

FESTIVAL MUSICA

Verona Jazz per Big Band

Dal vivo le orchestre atipiche di William Parker, David Murray e George Russell

- MARCELLO LORRAI - VERONA

E cco uno di quei casi in cui l'apparenza inganna. Come ormai consuetudine, anche quest'anno Verona Jazz ha pagato il proprio tributo al grosso pubblico con una serata all'Arena, affidandosi questa volta per riempirla al gruppo di Pat Metheny, alla prima data della sua tournée italiana. Ma non è stato nella sua più impegnativa cornice, e nemmeno in quella di un altro antico anfiteatro, il Teatro Romano, che Verona Jazz ha offerto l'occasione di ascolto più imperdibile della sua edizione '98 (certamente una delle migliori e più godibili degli ultimi anni), bensì al chiuso del più discreto Teatro Nuovo, in uno degli appuntamenti gratuiti programmati nel tardo pomeriggio.

Protagonista la Little Huey Creative Music Orchestra di William Parker, contrabbassista neroamericano che si è fatto un nome fra gli appassionati di jazz di ricerca soprattutto come regolare partner, per molti anni, di una figura del tutto fuori del comune come Cecil Taylor. Alle esperienze orchestrali non ortodosse del pianista, e più in generale al suo magistero, il lavoro di Parker con una grossa formazione palesemente deve qualcosa: per esempio nello sforzo di dare vita a forme sonore sganciate dalle convenzioni dei repertori usuali delle big band di jazz. Ma la differenza del suo approccio, e anche del risultato, è notevole: se Taylor punta a far sprigionare alle sue grandi formazioni una poderosa forza emozionale a partire da un canovaccio piuttosto semplice, puntando un po' spontaneisticamente e rischiosamente sulla sintonia e sulla partecipazione dei musicisti che coinvolge, Parker cura invece puntigliosamente lo sviluppo della musica, badando anche a tenere conto delle caratteristiche dei singoli musicisti che allinea nelle file dell'orchestra.

La direzione non è comunque quella della fissazione delle composizioni in un assetto rigido: di volta in volta i brani cambiano aspetto, e Parker del resto ama proporre materiale sempre nuovo. Ma anche se attraverso un metodo diverso, come nella musica di Taylor anche qui si sente l'impegno serissimo a realizzare una musica che sfugga alla banalità e che riesca a stabilire con l'ascoltatore un rapporto emozionale profondo.

In due tempi di circa un'ora ciascuno la Little Huey ha avuto agio dimostrare la varietà di sfaccettature e il senso delle sfumature di cui è capace. Dopo una prima parte più severa e contrastata, con atmosfere che richiamavano anche poetiche della musica accademica del Novecento, la seconda metà ha proposto l'orchestra in una chiave più lirica e sognante, rivelatrice di una acuta sensibilità che poteva riportare tanto ad un Duke Ellington quanto ad un Nino Rota. A parte Parker, i componenti della Little Huey sono sostanzialmente degli illustri sconosciuti anche per gli appassionati (anche se molti prevedibilmente destinati a non restarlo per molto): fedele alla propria più profonda (e rara) ispirazione, Verona Jazz è riuscita una volta di più a comunicarci, attraverso la presentazione di un'ampia compagine di giovani talenti, il senso vivo della continuità e della riproduzione del tessuto del jazz di ricerca.

Quasi una "all stars" era invece l'orchestra intestata a David Murray e diretta da Butch Morris, impegnata nella rilettura di pagine di Duke Ellington e Billy Strayhorn. L'esibizione della formazione è rimasta un po' al di sotto delle aspettative autorizzate da un organico che comprendeva figure come Bobby Bradford alla cornetta, Hugh Ragin alla tromba, Craig Harris e Gary Valente ai tromboni, James Newton al flauto, Oliver Lake e il leader alle ance, Art Davis al basso e Andrew Cyrille alla batteria: alla qualità di alcuni solo (basti quello di strabiliante, virtuosistica disinvoltura di James Newton) non ha corrisposto un insieme altrettanto brillante, ma la rielaborazione del repertorio ellingtoniano scelto dalla Big Band era alla sua prima prova e bisogna consentirle il beneficio di un congruo rodaggio.

Assieme a quelle di Parker e Murray la presenza di una terza grande formazione di tutto rispetto ha assicurato a Verona '98 la spina dorsale: la Living Time Orchestra di un maestro ormai anziano ma sempre vivace come George Russell, formazione che ha conquistato con la sua verve e la sua sobria e leggera eleganza e che ha concluso il proprio set col classico, seducente adattamento russelliano del davisiano So What.

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