MERIDIONE
- GIACOMO BECATTINI -
V isti gli equivoci che ha provocato, mi provo a riproporre, sperando di essere più chiaro, il mio "disegnino" d'industrializzazione leggera, endogena, del Mezzogiorno, innescata e parzialmente trainata dai distretti industriali del centro-nord (il manifesto del 6 e 7 marzo). Il punto focale risiede nel fatto che: a) si tratta di modificare radicalmente comportamenti abituali di strati importanti della popolazione meridionale; b) il distretto industriale è, fra l'altro, una "macchina per la modificazione dei comportamenti individuali". Tutti i partecipanti ad esso, infatti, imprenditori, lavoratori, amministratori pubblici, sindacalisti, debbono, per mantenersi a galla, riformulare e assimilare quelle regole del gioco locale che si rivelano via via necessarie alla continuazione del gioco stesso nel suo mutevole contesto esterno. E' difficile che il processo appena accennato riesca a stare nel binario, stretto e variabile al tempo stesso, disegnato dalle sue condizioni di successo e forse hanno ragione i miei critici a non vedere nel Mezzogiorno attuale le condizioni della ripetizione dei percorsi noti dei distretti centro-settentrionali, ma alcuni segnali, su cui tornerò più avanti, possono, al contrario, far sperare in qualche possibile replicazione, mutatis mutandis, delle storie di successo dell'Italia dei distretti.
Ora, la cosa singolare è che alcuni dei comportamenti più consentanei alla prosperità di un distretto (o di un proto-distretto) d'industria leggera, sono precisamente quelli (versatilità produttiva, rispetto dei termini pattuiti) che occorrono per muoversi bene nell'economia della globalizzazione. Il punto da sottolineare è, mi pare, la combinazione fra l'affacciarsi sul mercato, gli stimoli che produce (il "sogno" dell'affermazione sociale e/o dell'arricchimento personale) e i vincoli che ne discendono (la necessità di cambiare certi atteggiamenti consuetudinari) da un lato, e la risonanza dei mutamenti nel comportamento di un agente su quello degli altri, nella comunità locale, dall'altro. (Naturalmente il cambiamento socio-culturale promosso dal distretto è, se va bene, coerente con la logica di funzionamento del distretto; se uno lo commisura alle esigenze di uno sviluppo non distrettuale lo troverà, ovviamente, inadeguato).Ripresentiamo ora il "disegnino" nei suoi termini generali. Se è vero che la cartina di tornasole della stabilità di una soluzione del problema, insieme, industriale e occupazionale del Mezzogiorno, risiede nella capacità di mettere in piedi produzioni che si reggono sul mercato aperto; se è vero che c'è, nell'interscambio mondiale, uno spazio non effimero per i nostri prodotti tipici (made in Italy e meccanica); se è vero che i nostri distretti si sono inseriti stabilmente - tanto stabilmente quanto è comunque possibile in una realtà di mercato - nella rete del collocamento mondiale di quei prodotti; se è vero che le radici del loro vantaggio competitivo stanno in un accumulo di esperienze produttive specifiche in cui ha parte rilevante il sapere contestuale, pratico, che si forma facendo; se è vero che per espandere la loro produzione i distretti attuali debbono ricorrere sempre più a fornitori extra-distrettuali; se è vero che essi, nel decentrare, procedono dalle fasi più semplici e più facilmente controllabili, meno dense di prezioso know how, a quelle via via più complesse e impegnative; se è vero tutto ciò, perché non cercare di dirottare il potenziale di produzione, di occupazione, di prezioso know how produttivo e, indirettamente, commerciale, che trabocca dai nostri distretti, verso il Mezzogiorno?
Vuol dir questo livellare Grumo Nevano a Timisoara? No, ma certamente vuol dire creare le condizioni politiche, sindacali, giuridiche, infrastrutturali, perché diventi meno sconveniente, per le imprese dei distretti centro-settentrionali, delocalizzare in Campania anziché in Romania. Per far questo non c'è bisogno di portare i salari campani a livelli rumeni e neppure di eliminare tutte le salvaguardie del lavoro, ma c'è certamente bisogno di un'opera di sburocratizzazione, di assistenza all'impresa, di formazione continua della manodopera, di ricerca tecnologica e di mercato, e, a premessa e coronamento di tutto, di ristabilire il controllo sul territorio. E anche di denuncia nuda e cruda che la lunga stagione dell'assistenzialismo, del clientelismo, del giustificazionismo è finita.
Certo, per mettere in moto il processo qui prospettato, occorreranno anche condizioni speciali del mercato del lavoro, fra cui anche riduzioni del saggio salariale locale, come è logico che sia quando i contenuti di professionalità specifica del lavoratore locale siano molto inferiori - senza offesa per nessuno - a quelli offerti dal lavoratore dei distretti classici. Ciò che urge, quindi, è di farlo lavorare, il lavoratore locale, per ridurre quel gap di produttività. Ora, io credo che, disponendo di risorse e "volontà politica", si possano disegnare misure agevolative, di sostegno e di promozione accettabili da tutte le parti in causa. Sul timore di un effetto di ritorno sui salari e sulle condizioni di lavoro delle zone del Centro-Nord, mi limito ad osservare che la situazione di ripresa economica e la presenza di un governo di centro-sinistra dovrebbero bastare a impedire il fenomeno. Ma sono d'accordo che si debba prestare la massima attenzione a questi possibili esiti della manovra.
Sebastiano Brusco, un sardo che di queste cose si occupa da tutta la vita, così concludeva, tre anni fa, con Daniela Bigarelli, una bella ricerca sulla maglieria e le confezioni: "da questi ordini che vengono dall'esterno queste regioni derivano certamente una situazione di dipendenza (..) ma, al contempo, sotto la guida delle regioni forti, queste regioni accrescono a poco a poco il loro saper fare, imparano prima a realizzare il prodotto, poi a progettarlo, poi ad avere rapporti con il mercato, e crescono sul piano della competenza industriale sino a divenire concorrenti delle regioni che per un lungo periodo hanno tratto vantaggio dai loro bassi costi del lavoro" (Rivista Italiana di Economia, 1995, n.0, p.31-32). Naturalmente quell'evoluzione non è né sicura, né facile, nondimeno essa resta una precisa e definita linea d'azione, con una sua chiara logica economica e con precedenti che possono fare sperare.Il punto di massima divaricazione dei ragionamenti miei e di quelli dei miei critici si può individuare così: se ci si fissa su di una ipotetica situazione "iniziale" di sfruttamento del Mezzogiorno ad opera di imprenditori del Centro-nord che monopolizzano l'accesso al mercato, è possibile vedervi solo "sfasciume", imprese "senza materia grigia", assenza di "sistema locale", una situazione, insomma, da cui non può sortire niente di positivo; ma se, come fa Brusco, si considera la cosa processualmente, in relazione alla logica evolutiva di "quei" tipi di produzione, diventa almeno possibile che da quell'apparente "sfasciume" venga fuori qualcosa di positivo.
Leggo nel recentissimo libro di G. Bodo e G. Viesti (La grande svolta. Il Mezzogiorno nell'Italia degli anni novanta, Donzelli, 1998) che dopo l'85, e più particolarmente dopo il '92, si è avuta una svolta netta nel modello di specializzazione delle esportazioni meridionali: dopo decenni di dominio incontrastato dei prodotti delle grandi imprese a partecipazione statale, si è assistito al loro declino e, quel che più conta, al decollo, anche nel Mezzogiorno, dei prodotti che reggono, in generale, la nostra bilancia dei pagamenti (i beni per la persona e per la casa e la meccanica non automobilistica) ad opera di molte piccole e medie imprese, non poche delle quali nate di recente. Non sono per affidarmi completamente alle statistiche di pochi anni, né dimentico che quel movimento interessa ancora una parte limitata delle esportazioni meridionali, ma credo che il messaggio trasmesso dai dati di Bodo e Viesti - confermato, peraltro, da altre indagini - sia abbastanza chiaro: molte imprese meridionali di quei settori, vecchie e nuove, medie e piccole, risolti i problemi produttivi, hanno trovato la via dei mercati esterni.Se il discorso si fermasse qui, il pericolo di farsi delle illusioni e di andare incontro, quindi, a delusioni cocenti, sarebbe alto. Non si può dimenticare, infatti, che l'emergere, nel Mezzogiorno, di distretti o zone industriali distretto-simili, se non è accompagnato da un'espansione congrua della domanda mondiale di quel tipo di beni, crea le condizioni di una concorrenza sempre più aspra fra le imprese dei vecchi e quelle dei nuovi distretti. Da ciò l'opportunità di non abbandonarsi totalmente allo spontaneismo dei singoli "accoppiamenti Nord-Sud", ma di orientare e integrare quegli accoppiamenti secondo un piano complessivo, che tenga conto di tutto, dagli scenari mondiali alle diversità locali, ma che s'ispiri, fondamentalmente, al concetto che la risorsa più preziosa sono le capacità addestrate degli uomini.
Si vede bene, quindi, come il disegno sia solo in apparenza localistico. Una politica dei distretti, infatti, non è neppure concepibile separatamente dal resto della politica industriale, da quella dei trasporti e delle comunicazioni, da quella dell'assetto del territorio, da quella del commercio con l'estero, dalla stessa politica estera.
Forse è il caso ch'io ripeta, a scanso di ulteriori equivoci, che questo disegno non contempla il confinamento del Sud ai settori cosiddetti "maturi" (che poi maturi non sono affatto), ma semmai la ripetizione, mutatis mutandis, della via alla complessificazione settoriale degli aggregati territoriali, cioè alla diversificazione fisiologica delle produzioni tipiche, che già contrassegna l'industria del Centro-nord: dai beni per la persona e la casa ai beni strumentali, ai semilavorati, ai beni complementari e così via. Il mio bersaglio, una struttura industriale complessa per il Mezzogiorno, non è, penso, molto diverso da quello dei miei critici, ma mentre il mio percorso scaturisce dall'interno di processi d'industrializzazione leggera che trovano il loro combustibile nelle aspirazioni di uomini in carne ed ossa, ho l'impressione che il loro volteggi alto sugli uomini e sulle situazioni concretamente esistenti.