I baffi di Marino

VIALE GUIDO

I baffi di Marino

GUIDO VIALE -

N ON SAPPIAMO e forse non sapremo mai chi sono gli assassini del commissario Calabresi. In compenso sappiamo chi sono coloro che vogliono seppellire in carcere Adriano Sofri, Ovidio Bompressi e Giorgio Pietrostefani: sono coloro che, in concorso tra loro, hanno lavorato e lavorano per portare e mantenere questa indecente vicenda giudiziaria nel suo esito attuale.

Gli ultimi in ordine di tempo ad aggiungersi a questa folta schiera sono i giudici della V sezione della Corte di Appello di Milano, estensori dell'ordinanza con cui è stata respinta l'istanza di revisione del processo; giudici che in realtà, come è già stato osservato, si sono rifatto il processo "tra di loro", in segreto e senza contraddittorio, scrivendo un atto che è al tempo stesso una requisitoria e una sentenza: l'ottava della serie.

Così il presidente Scalfaro, che, per non introdurre surrettiziamente (a suo dire) nel nostro ordinamento "un quarto grado di giudizio", ha rifiutato di concedere ai condannati la grazia utilizzando l'articolo 681, quarto comma, del nuovo codice di procedura penale (che introduce l'istituto della grazia senza domanda proprio per sciogliere garbugli come questo, che i meccanismi della giustizia ordinaria non riescono a dipanare) è servito. I giudici della V gli hanno confezionato addirittura un ottavo grado di giudizio: con una sentenza che passerà alla storia giudiziaria italiana come La Sentenza dei Baffi di Marino.

Marino e i testimoni

Questa denominazione è presto spiegata: tutta l'accusa di questa vicenda giudiziaria si basa solo ed esclusivamente sulla "confessione" di Marino. Tutta l'attendibilitò di questa confessione si basa solo ed esclusivamente sulla presunta partecipazione di Marino all'omicidio del commissario, in qualità di autista del commando. Tutte le prove della sua partecipazione si riducono alla tesi che Marino non avrebbe avuto alcun motivo per confessare un delitto mai commesso; per il resto, la ricostruzione dell'attentato fatta da Marino si scontra frontalmente con quella dei testimoni oculari (ricostruita in animazione informatica dall'avvocato Gamberini e portata in teatro da Dario Fo) e con quella fatta dalla polizia all'epoca del delitto. Ma, soprattutto, si scontra con il dato elementare che tutti i testimoni oculari che hanno visto l'autista del commando lo hanno descritto come una donna dai capelli biondi lunghi e lisci, e non come un uomo dai grandi baffi, con i capelli neri a cespuglio, come era Marino.

Peraltro, è per offuscare questo dato incontrovertibile che Marino e i suoi suggeritori hanno cambiato completamente la dinamica dell'attentato, introducendo una marcia indietro che nessuno ha mai visto e anticipando (per non contraddire la "marcia indietro") un incidente con un testimone investito dal commando. Senza contare che sul prima e il dopo dell'attentato (la fuga senza un piano e senza mezzi e la preparazione con un basista e una casa che non si trovano) il racconto di Marino presenta un vero vuoto, che l'avvocato Ascari non dovrebbe esitare a definire "torricelliano".

Ma perché il racconto di Marino contraddice così spudoratamente tutti i dati di fatto precedentemente acquisiti sulla dinamica dell'omicidio? Marino, ex militante di Lotta Continua, deve aver seguito molto bene, all'epoca del delitto, la ricostruzione che ne avevano fatto i giornali. Inoltre ha avuto modo di fare un ripasso generale delle indagini in compagnia di Mathias Deichmann, uno dei primi indiziati del delitto, con cui Marino discuteva spesso del caso quando era custode della villa di suo padre, come lo stesso Deichmann ha raccontato. Infine, il principale suggeritore di Marino, il colonnello dei Carabinieri Umberto Bonaventura, aveva seguito le indagini sulla morte del commissario fin dall'inizio.

Se Marino avesse voluto raccontare i fatti così come si sono svolti, non gli mancavano certo i mezzi per fare una ricostruzione più fedele: ma questo avrebbe messo in evidenza l'unico punto di incontrovertibile e insuperabile contrasto con la realtà: la trasformazione di un'autista bionda nel crespo, nero e baffuto Marino. Cambiando la dinamica del delitto, contraddicendo su vari punti i testimoni e, soprattutto, grazie all'aiuto solerte del sostituto Pomarici, del procuratore-giudice Minale (processo di primo grado) e degli estensori delle sentenze dei successivi gradi di giudizio, Marino è riuscito a obnubilare e a far passare in secondo piano questa contraddizione fondamentale. Che tuttavia resta: a insanabile riprova del fatto che tutta la ricostruzione dell'accusa è integralmente falsa.

In quest'opera di vera e propria cancellazione delle prove (analoga alla distruzione, a istruttoria in corso, dei corpi del reato, che è ben difficile non ritenere dolosa), gli estensori delle successive sentenze sono stati presi da un vero e proprio raptus, alimentato, via via che la vicenda si avviluppava, dalla comprovata impunità da cui si sentivano e si sentono protetti.

Il vero autista

Per esempio, a proposito dell'autista del commando, la teste Dal Piva depone di fronte alla Corte di primo grado: "Vidi la donna in due situazioni diverse: una volta di dietro, mentre camminava davanti a me, e poi seduta in auto, mentre mi volgeva la guancia destra... Quando la osservai mentre mi camminava davanti mi apparve come una donna dall'altezza di 1,65 circa, aveva un sedere piuttosto grosso e rotondo, direi ben fatto...I capelli lunghi scendevano fino alle spalle biondi... Quando vidi la donna di profilo seduta in macchina mi porgeva la guancia destra che era piuttosto arrotondata".

L'ultima sentenza di appello - quella che, confermata dalla Cassazione, è diventata condanna definitiva - afferma: "analizzando attentamente la deposizione della Dal Piva, non appare assolutamente fuori luogo, assurdo e fantastico dedurre che le due persone da lei descritte, una alta e slanciata, l'altra bassa e grassoccia, con i capelli lunghi, potevano corrispondere alle caratteristiche delle persone di Bompressi e Marino, come ancora oggi si può constatare". La persona bassa e grassoccia, con i capelli lunghi, che il giudice Della Torre identifica con Marino non è nessun altro che la ragazza bionda descritta dalla teste Dal Piva: sia in dibattimento che subito dopo l'attentato.

La sentenza con i baffi

Credevamo che questo fosse il punto estremo - ben oltre i limiti della decenza - a cui i vari giudici dei processi per l'omicidio Calabresi potessero spingersi. Ma la sentenza emessa mercoledì 18 marzo dai giudici dell'ottavo grado di giudizio ci lascia letteralmente senza fiato. A proposito del teste Pappini (alla guida dell'auto che seguiva, in andatura forzatamente rallentata, l'auto degli attentatori), che aveva visto al volante di questa, ovviamente da dietro, una donna con i capelli lunghi, lisci, svasati su un lato, la sentenza dei giudici di ottavo grado, come già stato ampiamente riportato dai giornali, afferma: "Neppure assurdo ritenere che - in un flash back - Pappini si sia fatto l'idea della particolare acconciatura del conducente dalla percezione visiva dei baffi di Marino".

Ora provate voi a immaginare l'anatomia di una persona - di sesso indeterminato - i cui capelli possono essere confusi con i baffi neri - peraltro non visibili da dietro - di Leonardo Marino: senza peraltro notarne la zazzera nera, a cespuglio, ovvero alla Angela Davis! Le cinquanta pagine dell'ordinanza della V sezione sono piene di perle come questa!

E' possibile immaginare un oltraggio peggiore: al buon senso, alla legge, all'intero ordine giudiziario e - ovviamente - ai condannati di cui si giudica? No. Non possibile.

E' possibile che il comportamento dei giudici della V sezione della Corte di Appello di Milano non venga punito, o per lo meno sanzionato, da un'istanza superiore (il Csm, la Cassazione, il Presidente della Repubblica, che del Csm è Presidente)? E' possibile. Per lo meno a giudicare dall'impunit di cui hanno goduto gli estensori delle sentenze precedenti: a partire dal dottor Pincione, estensore della sentenza suicida del primo processo di rinvio, che non è mai stato deferito al Csm - mentre altri estensori di sentenze suicide lo sono stati, e un caso è attualmente addirittura al vaglio della Corte Costituzionale. O a giudicare dall'impunità di cui ha goduto il giudice Della Torre, le cui minacce di ripetere l'impresa di Pincione sono ben documentate dagli interrogatori svolti dal sostituto procuratore di Brescia Salamone: che però ha interrotto le sue indagini dopo aver ricevuto un avviso di garanzia dalla procura di Caltanissetta!

Imbroglio continuo

Il processo Calabresi è nato da una tesi accusatoria, a tal punto sciatta e insostenibile, che non si è mai nemmeno osato procedere - come sarebbe doveroso a termini di legge - contro persone ripetutamente indicate in atti e in tutte le sentenze come i veri responsabili dell'omicidio (tra cui il sottoscritto). Voglio qui ricordare che nella denuncia di Marino, come in tutte le sentenze di condanna che si sono succedute fino ad ora, i veri mandanti dell'omicidio del commissario non sono né Sofri né Pietrostefani, ma l'Esecutivo di Lotta Continua, delle cui decisioni Sofri e Pietrostefani, nel ruolo loro attribuito da Marino, sono semplici esecutori (alla stessa stregua di Bompressi e dello stesso Marino): uno come fonte di convalida di una decisione già presa; l'altro come organizzatore della sua attuazione.

In questo processo, nato da una serie di incontri illegali e a lungo nascosti tra Marino e alcuni ufficiali dei Carabinieri, si è assistito, nel corso del tempo, a una serie veramente incredibile di misfatti giudiziari: dalla più che tempestiva scomparsa di tutti i corpi del reato alla manipolazione più spudorata di tutte le testimonianze; dalla dichiarazione di inaffidabilità di tutti i testimoni - compresi quelli oculari escussi immediatamente dopo il delitto dalla polizia giudiziaria - alla resurrezione dei morti (il teste Biraghi) per fargli dire quello che non ha mai detto con la continua correzione - con l'aiuto degli inquirenti, del Pm e dei giudici - delle dichiarazioni di Marino, per cercare di non farle collidere con dati di fatto incontrovertibili. Le carte del commissario sono state sequetrate e secretate (per ben 26 anni) in un altro fascicolo dal giudice istruttore Lombardi, per cui il processo Calabresi è l'unico esempio noto, nella storia giudiziaria mondiale, di un funzionario di polizia assassinato di cui non si è voluto far sapere di che cosa si stesse occupando e su che cosa stesse indagando al momento del delitto.

I giudici popolari di questi processi sono stati più volte subornati e intimiditi per estorcere loro una sentenza di condanna e, quando ciò non ha sortito l'effetto voluto, si è proceduto in modo drastico a rendere nullo il loro pronunciamento con un imbroglio giudiziario di gravità inaudita. Per concludere - per ora - con il travalicamento delle proprie competenze con cui la V Sezione della Corte d'Appello ha voluto aggiungere la sua firma e la sua sentenza alle sette che l'hanno preceduta.

In sintesi: il processo Calabresi è cominciato nel 1988 con la "confessione" di Leonardo Marino e si è concluso, dopo essere passato al vaglio di ben quattro Corti, nel 1994, con l'assoluzione di tutti gli imputati, Marino compreso: il che, in termini giuridici significa che la sua era una falsa confessione. Poi, il processo è stato riaperto con un imbroglio (la sentenza suicida di Pincione) perpetrato ai danni della giustizia e degli imputati e organizzato all'interno del Palazzo di giustizia di Milano e si è trascinato, tra illegalità di ogni specie, fino a oggi, alla sentenza dei baffi di Marino.

In un paese normale non dovrebbero essere Sofri, Bompressi e Pietrostefani a rispondere alla giustizia e a espiare una pena per un crimine che non hanno mai commesso e da cui sono stati assolti, ma coloro che hanno organizzato la prima falsa confessione e coloro che hanno riaperto e tenuto in piedi il processo con l'imbroglio e il dolo anche dopo la sua conclusione. Nel nostro paese, invece, è successo il contrario. Questo dovrebbero tener presente cooro che continuano a blaterare di "giurisdizione alternatva" e di "quarto grado di giudizio" a proposito delle richieste dei condannati di veder riconoscere il loro buon diritto. Questo - e non l'autoaccusa di Marino - è in realtà il vero problema: come mai tutti i giudici di Milano - ma non solo di Milano - coinvolti in questa vicenda sono stati disposti a fare carte false - o a lasciarle fare ai loro colleghi - pur di arrivare a questo esito processuale, senza mai rimetterlo in discussione?

E poi; è possibile che nel Palazzo di Giustizia di Milano nessuno si ribelli a questo sistema e nessuno ritenga intollerabile questa sequenza di infamie? E' possibile. In dieci anni di lì non si è levata una sola voce contro queste prepotenze. In tutta Italia magistrati di varie tendenze hanno partecipato, con le posizioni più diverse, ma aperte al confronto, ai dibattiti sul processo Calabresi. A Milano non se ne è mai visto uno. Da dove nasce tanta compattezza?

Solidarietà giudicante

Una prima spiegazione ci viene fornita da Giuseppe D'Avanzo sul Corriere della Sera di venerdì 20 marzo. Per i giudici è imbarazzante contraddire altri giudici, specie quando li si incontra tutti i giorni: la base materiale dello spirito di corpo interno all'ordine sta nella reciproca frequentazione.

Una seconda spiegazione è la circostanza che la vicenda del processo Calabresi andata a sovrapporsi cronologicamente alla parabola di Mani Pulite: per cui mettere in discussione le scelte, prima, e il comportamento, poi, della magistratura milanese nel processo Calabresi suona come un attacco al prestigio della Procura più celebrata d'Italia; o addirittura come un attacco ai suoi obiettivi giudiziari. Tra molti sostenitori - di destra e di sinistra - della Procura milanese - variamente denominati giustizialisti, o popolo dei fax, borrellisti o dipietristi - questo tema è ricorrente. Ma questo non spiega ancora l'accanimento con cui questa vicenda si è sviluppata.

Una terza spiegazione è che il comportamento palesemente illegittimo e spesso illegale dei magistrati che si sono avvicendati nel corso di questi processi sia sostenuto da una pervicacia giustizialista che soprassiede alle forme in vista di un risultato sostanziale: farla pagare a tre persone che essi ritengono comunque colpevoli indipendentemente dalle risultanze processuali. Questa spiegazione corroborata dal fatto che in diversi ambienti giudiziari e istituzionale ci si è più volte imbattuti nella convinzione che l'esito dei vari processi si fondi su una prova non ostensibile, di cui non è rimasta traccia negli atti: cioè un "crollo" o una "confessione" di Bompressi, subito dopo l'arresto che, poi, in un secondo tempo, "si sarebbe ripreso".

Questa tesi ha già fatto diverse comparse ufficiali. Tra le tante, citiamo un articolo di uno dei più inossidabili sostenitori dei magistrati di Milano: Marco Travaglio, Le bugie di Adriano, Il Borghese, 5. 11. 97. (In questo stesso articolo si trova anche affermato che a scrivere segretamente la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione, che ha annullato la prima sentenza d'appello, sia stato niente di meno che il capo dei Gip di Roma Renato Squillante; dato che la "lobby di Lotta Continua" e quella craxiana-berlusconiana di Previti sono la stessa cosa!).

La diffusione di questa menzogna, non suffragata da alcun atto processuale, può avere avuto - e sappiamo che ha avuto - un indubbio peso in alcuni ambienti. Ma basta a tutto questo a spiegare lo scudo invalicabile costruito intorno alle tesi dell'accusa? No. Per quanto infami siano questi mezzi ("Calunnia, calunnia! Qualcosa resta!"), non basta. Probabilmente i magistrati non sono gli arbitri finali di questo processo.

Gli arbitri finali

Come è noto tutta questa vicenda è stata contrassegnata dalla presenza, durante l'intero arco dei 26 anni che ci separano dall'omicidio Calabresi, dell'Arma dei carabinieri: in particolare di quella istituzione benefica che è il comando della divisione Pastrengo. Di lì viene il colonnello Bonaventura, che ha indirizzato fin dall'inizio le indagini contro Lotta Continua, portandole avanti, con alterne vicende, fino a quando ha finalmente potuto dedicarsi alla "pastorizzazione" (per usare un termine di Dario Fo) di Marino. Di questi incontri, prima taciuti e fino a ieri considerati irrilevanti rispetto all'oggetto del processo, l'ordinanza della V sezione dà invece per scontato che avessero per oggetto proprio l'omicidio Calabresi; senza però spiegare come mai il Colonnello Bonaventura lo abbia tenuto nascosto per un anno e mezzo (e Marino con lui); e come mai il sostituto Pomarici abbia finto, per lo stesso periodo, di non saperne nulla.

Di lì (Divisione Pastrengo) è stata organizzata "l'assistenza" a Marino durante la fase istruttoria, per aiutarlo a ricordare, con l'aiuto di mappe catastali, particolari di luoghi in cui Marino non era mai stato. Ma questa presenza inquietante dell'Arma continua anche dopo, fino ai giorni nostri. Sappiamo che all'origine delle accuse secondo cui Lotta Continua (sopravvissuta 12 anni alla sua estinzione) avrebbe organizzato l'uccisione di Mauro Rostagno per tappargli la bocca sull'omicidio Calabresi. I Carabinieri di Trapani hanno attribuito questa tesi al giudice istruttore Lombardi - che ha smentito - e al giudice a latere del primo processo d'appello Bertolé Viale (e, dunque, documentando una singolare quanto - ancora una volta - non verbalizzata frequentazione dei giudici chiamati a deliberare sul processo Calabresi). Ma prima di diventare di pubblico dominio, questa tesi era stata anticipata, durante il primo processo di rinvio, dall'avvocato di parte civile Li Gotti (che dunque, quando si tratta di lanciare accuse contro Lotta Continua, gode anche lui di un'assistenza particolare da parte dei Carabinieri, del tutto analoga a quella di cui gode Marino).

Anche il giudice Della Torre, di cui sono documentati i comportamenti illeciti per imporre una sentenza di condanna, all'epoca del processo Calabresi era alle prese con l'Arma, che lo aveva sorpreso in compagnia di alcuni mafiosi, deferendolo per ciò - invece che alla Procura, funzionalmente competente, di Brescia - a quella di Bergamo, dove poi stato irritualmente prosciolto.

Conclude questa rassegna di ciò che ufficialmente si sa, l'ordinanza della V sezione della Corte d'appello di Milano, che, pur di salvare la buona fede dei carabinieri di Trapani, responsabili delle calunnie sulla morte di Mauro Rostagno, restituiscono al loro collega Lombardi, che l'aveva ripudiata, la paternità delle accuse contro Lotta Continua (o, meglio, il suo fantasma, sopravvissuto almeno altri 12 anni), per l'organizzazione dell'omicidio di Mauro Rostagno. Tante grazie alla V sezione, anche a nome del giudice Lombardi.

E allora? Allora probabilmente bisogna dare ragione al sostituto Gherardo Colombo, secondo il quale un meccanismo fondato sull'omertà e sul ricatto governa la vita del palazzo - o larga parte di essa. Solo che questo meccanismo sembra aver investito non solo il palazzo della politica, ma anche quelli della magistratura e, in particolare, quello milanese: che proprio per non disobbedire ai carabinieri, sprofonda progressivamente nel pantano del processo Calabresi. Questo Colombo si è dimenticato di dirlo e, forse, proprio per questo trova del tutto normale tenere il processo Calabresi (e i baffi di Marino) al riparo dal vizio della memoria.

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